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L’AKP mette mano alla liberalizzazione del sistema politico turco:
il “pacchetto di democratizzazione” e la complessa questione curda.

Dopo una lunga attesa, il primo ministro turco Erdogan ha annunciato pubblicamente il cosiddetto “pacchetto di democratizzazione”, un documento contenente una lunga serie d’impegni del governo per riformare e trasformare in senso democratico il sistema politico turco e su cui, negli scorsi mesi, si è a lungo speculato. Buona parte della stampa internazionale ha ovviamente collegato il pacchetto democratizzazione ad un tentativo del governo di ricostruire l’immagine del paese dopo la repressione interna delle proteste di piazza Taksim. Se forse una certa mediatizzazione delle misure è stata sicuramente pensata anche con l’obiettivo di riposizionare l’immagine del paese dopo l’ondata di cattiva stampa internazionale che ha fatto seguito alle rivolte di piazza di questa estate, in realtà il pacchetto di democratizzazione ha una pluralità di destinatari e differenti obiettivi politici, il più importante dei quali resta quello della riconciliazione nello stato turco della componente etnica curda. Questa è difatti la sfida più complessa che l’AKP sta inseguendo ormai da diversi anni, bilanciando le spinte di apertura e di inclusione tipiche di un movimento islamista verso la minoranza curda correligionaria, con le esigenze di sicurezza, e le resistenze che provengono dalle forze armate e della magistratura, cercando di superare la lunga storia di un conflitto caratterizzato da contrapposizioni linguistiche e nazionali, oltre che ideologiche.  

Contestualizzazione del “pacchetto di democratizzazione” con il “processo di risoluzione” della questione curda e l’evoluzione della guerra civile siriana.  


La soluzione della questione curda rappresenta una sfida che l’AKP ha messo in agenda anche nelle precedenti legislature ma che non è riuscito a portare a compimento sia a causa della recrudescenza del terrorismo del PKK negli ultimi anni, sia per le forti opposizioni interne incontrate. Una serie di fattori hanno fatto si che il 2013 si sia aperto come l’anno decisivo per un’evoluzione della questione curda. Tra di essi, il progressivo rafforzamento dell’AKP all’interno delle strutture dello stato turco, l’indebolimento del potere delle forze armate sul paese, il cambiamento delle posizioni ideologiche di Ocalan divenuto favorevole ad una tregua nelle operazioni militari, e – soprattutto – le sempre più strette relazioni del governo turco con il Kurdistan Regional Government iracheno (KRG). Questi fattori, assieme ad altri, hanno contribuito ad aprire una finestra di opportunità nel 2013, identificato da entrambe le parti come l’anno possibile per la costruzione di un processo di risoluzione (Çözüm Süreci) del trentennale conflitto militare. Il cessate il fuoco, proclamato dal carcere dal leader curdo Ocalan il 21 marzo 2013 assieme alla dichiarazione di ritiro delle formazioni paramilitari curde dalla Turchia all’Iraq settentrionale, ha suggellato i tentativi intrapresi dal governo e, nonostante alcune azioni isolate di rottura della tregua, ha garantito circa dieci mesi sostanzialmente privi di rilevanti atti di ostilità contro le forze armate turche. Tuttavia già dall’estate del 2013, i negoziati segreti tra le due parti sono giunti ad uno stallo, al punto che il PKK annunciava l’interruzione del ritiro delle proprie milizie, mentre il governo accusava il movimento di aver mantenuto un ritmo di ritiro troppo lento che aveva interessato meno del 20% degli effettivi stimati essere operativi sul territorio turco.  

E’ chiaro che l’occasione storica apertasi nel 2013 per giungere ad un accordo tra lo stato turco e le formazioni paramilitari del PKK ha portato ad un ravvicinamento delle parti, impensabile anche solo pochi anni fa, ma ha mancato di produrre, almeno per il momento, l’avvio di un negoziato bilaterale di pacificazione. Questo fase tattica ha comportato che le iniziative prese nel corso di questo anno di tregua sia da parte dello stato che del PKK abbiano sostanzialmente avuto un carattere unilaterale, rappresentando concessioni fatte al nemico, senza riconoscerne pubblicamente la soggettività e senza che ad essa corrisponda una contropartita negoziata. Appaiono essere più tentativi tattici di saggiare l’avversario, di studiarne i margini d’azione, le opposizioni interne e le red lines, piuttosto che un vero e proprio “negoziato”. D’altro canto, sarebbe davvero difficile che un vero e proprio negoziato tra Turchia e PKK possa avere luogo in così poco tempo dalla cessazione delle ostilità e attraverso l’indiretta mediazione di un leader che, ancorché carismatico, è oramai in carcere da oltre dieci anni. In realtà la questione curda è una questione multilivello, che vede progredire – entro certi limiti – i rapporti con la minoranza curda ed i partiti che la rappresentano (il BDP) e da tale miglioramento ci si attende una normalizzazione dei rapporti con il PKK. La parlamentarizzazione della questione curda rappresenta sicuramente un notevole progresso per la Turchia e questo sembra essere l’obiettivo di medio termine dell’AKP, ma tale strategia ha i suoi limiti in quanto, necessariamente, non potrà finire per eliminare la componente militare senza ingaggiarla direttamente in una politica di disarmo in cambio di concessioni. In questa particolare fase storica, assolutamente determinante appare essere l’ulteriore livello della questione curda, quello internazionale, che vede ora le principali preoccupazioni turche concentrarsi lungo il confine siriano, ove le milizie curde divenute di fatto controllori del proprio territorio sono impegnate in un duplice conflitto, contro le forze del regime di Assad e contro le altre milizia radicali sunnite che combattono contro il governo centrale. Se ancora confuso appare essere il ruolo che la Turchia ha in questa partita, è comunque chiaro che la questione curda vista da Ankara si amplia fino a affrontare i rapporti con il governo autonomo del Kurdistan iracheno e, attraverso esso, quelli più conflittuali con il PYD siriano.  Livello parlamentare, livello militare, livello internazionale curdo - iracheno e livello internazionale curdo – siriano sono dunque i quattro livelli attraverso cui va letta la questione politica curda in Turchia, con il livello siriano che appare essere oggi il più dinamico e strategicamente rilevante per Ankara. Dal destino della questione curdo-siriana dipendono in parte i rapporti che Ankara riuscirà a costruire o a mantenere con i curdo iracheni e le minoranze curde in Turchia. È in questo contesto che viene a cadere il “pacchetto di democratizzazione”, che prosegue idealmente le altre misure varate nei mesi e negli anni scorsi dall’AKP (come il quarto pacchetto di riforme della giustizia dell’aprile scorso o i vari emendamenti costituzionali che hanno ampliato la sfera della protezione dei diritti dell’uomo in Turchia).   

I contenuti del pacchetto: verso la democratizzazione silenziosa della Turchia?

Il cosiddetto pacchetto di democratizzazione apre nuovi spazi di libertà verso maggiori garanzie democratiche in quattro direzioni: libertà civili interne; libertà nei confronti della minoranza curda; libertà nei confronti della minoranza degli Alawi; contenimento del ruolo delle forze armate. Tuttavia, la minoranza curda, è la maggiore beneficiaria dei provvedimenti annunciati dall’esecutivo che vengono visti come le risposte del governo al cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal PKK dal marzo scorso. L’elemento più rilevante su questo fronte è sicuramente l’impegno ad abbassare, con una riforma costituzionale, la soglia di sbarramento del 10%, introdotta dalla giunta militare nel 1980 per mantenere fuori dal parlamento i piccoli partiti radicali e le forze rappresentative della minoranza curda. Il pacchetto impegna il parlamento, dominato dall’AKP, a procedere ad un abbassamento al 7% o addirittura al 5%, con quest’ultima ipotesi che prevedrebbe però anche una ridefinizione delle circoscrizioni. Al tempo stesso il pacchetto prevede che possono accedere ai finanziamenti pubblici anche quei partiti non rappresentati in parlamento che raccolgono alle elezioni politiche almeno il 3% dei voti. L’importanza di tali modifiche per la minoranza curda è evidente se si pensa al fatto che il BDP, il principale partito curdo, si attesta attorno al 6% dei voti, attualmente non qualificandosi né per la rappresentanza parlamentare né per il finanziamento pubblico. Oltre alla rappresentanza politica, l’altra norma di rilievo è quella che riguarda l’uso della lingua curda. Nel pacchetto viene nuovamente legalizzato l’uso di alcune lettere dell’alfabeto curdo che non sono presenti in quello turco, ma soprattutto viene legalizzato l’uso della lingua curda come lingua d’insegnamento nelle scuole private e nelle campagne elettorali. Allo stesso tempo, viene ripristinata la toponomastica storica per alcuni villaggi curdi. Rimangono esclusi da questi provvedimenti linguistici, i nomi delle grandi città, che restano solo turchi e l’uso della lingua turca nelle scuole pubbliche e nella pubblica amministrazione (in forza di un articolo della costituzione che ribadisce il turco come unica lingua ufficiale del paese).

Da un punto di vista dei diritti umani, le norme di protezione riguardano prevalentemente i diritti di libertà religiosa: vengono rafforzate le norme penali contro i reati d’istigazione all’odio etnico o religioso e vengono introdotte nuove norme che criminalizzano l’interruzione o l’interferenza con le cerimonie religiose; al tempo stesso si liberalizza la possibilità di raccolta di contributi da parte delle fondazioni religiose. Anche il diritto di utilizzare il velo islamico nell’esercizio delle funzioni pubbliche (ad eccezione delle forze armate, polizia e magistratura) fa parte del cosiddetto ampliamento delle libertà religiose, almeno per quanto riguarda la religione maggioritaria. Alla Chiesa siriana viene restituito il possesso di un importante monastero, in passato confiscato dallo stato. Per l’ordine pubblico vengono alleggerite le norme che regolano la conduzione delle manifestazioni di piazza, mentre nelle scuole pubbliche viene sospeso il giuramento di fedeltà alla nazione turca. Complessivamente le norme non rappresentano uno stravolgimento della vita sociale turca, ma segnano un aumento d’influenza del peso del fattore religioso e del peso della componente nazionale curda nella vita politica turca. Se il pacchetto ha avuto una sostanziale buona accoglienza negli USA e da parte dell’Unione Europea, esso è stato accolto più da polemiche che da consensi entusiasti all’interno della Turchia. Scontate erano le critiche dei nazionalisti, che vedono messa in pericolo la matrice nazionale e secolare del paese, e quelle delle minoranze religiose che non hanno ottenuto particolari misure di protezione, come gli Alawi. Più complessa la questione dell’accoglienza del pacchetto da parte dei curdi. Nell’ambito degli ambienti politici più vicini al PKK ma anche all’interno del BDP è prevalsa l’accusa di misure superficiali e sostanzialmente inefficaci, che non hanno affrontato i veri nodi del problema: l’amnistia per i combattenti, l’uso della lingua curda nelle scuole e nella pubblica amministrazione, il miglioramento delle condizioni carcerarie di Ocalan e la concessione dell’autonomia amministrativa territoriale alle provincie abitate in maggioranza dai curdi. Non era tuttavia immaginabile che il pacchetto avrebbe dato tutto e subito alla minoranza curda. È chiaro che esso rappresenta la prima tappa di un apertura di un processo, che l’AKP cercherà di graduare, condizionandolo ai vantaggi che possono essere conseguiti sul fronte interno, in particolare ad un disarmo generale del PKK e alla fine delle ostilità militari sul territorio turco. Una questione che forse non è così impossibile da ottenere ma che è difficile affrontare senza aprire la questione di un’amnistia per i combattenti curdi.  L’impressione tuttavia, è quella che la prudenza del governo turco sia legata alla situazione venutasi a creare in Siria, che vede Ankara impegnata in complessi meccanismi di gestione del conflitto siriano, che preoccupa proprio per la possibilità che esso possa finire per produrre un nuovo ente territoriale curdo autonomo. L’avvio della costruzione di un muro in alcuni tratti del confine tra Turchia e Siria per evitare le infiltrazioni e l’aumento dei conflitti tra le forze che combattono Bashar Al-Assad sono tutti segnali di preoccupazione che non possono far procedere, autonomamente il dossier curdo in Turchia. La Turchia ha difatti costruito complessi meccanismi con cui legare a doppio filo il KRG iracheno di Barzani e, attraverso esso, riesce a tenere i rapporti con una parte dei curdi siriani, di cui supporta la partecipazione all’interno del Sirian National Council (SNC), basato in Turchia. SNC di cui non fa però parte il PYD, principale partito curdo siriano che esprime il maggior numero di milizie curde in territorio siriano.

Ecco che vista dalla complessa partita curda transnazionale, la questione dei diritti dei curdi in Turchia prende un'altra luce. Per Ankara è giunto dunque il momento delle aperture, ma non ancora quello della soluzione della questione curda. Tale momento potrebbe divenire propizio qualora dovessero davvero aprirsi dei negoziati di pace a Ginevra sulla Siria (il cosiddetto Ginevra II) che diano un inquadramento al futuro della minoranza curda in Siria. Per il momento l’AKP sta preparando il terreno della questione curda sia sul piano interno che internazionale, con un occhio a Diyarbarkir, l’altro ad Erbil e con la mente rivolta a Ginevra. 

paolo quercia per Osservatorio Strategico Cemiss
Ottobre 2013

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