Paolo Quercia
  • Paolo Quercia
  • Profilo
  • Cenass
    • Estero Vicino
  • Ricerca e analisi
    • Geopolitica >
      • Balcani e Sud Est
      • Turchia
      • Mediterraneo
      • Corno d'Africa
    • Relazioni internazionali e sicurezza >
      • Politica Estera
      • Sicurezza e migrazioni
      • Islamismo, Radicalizzazione, Jihad, foreign fighter
    • Sicurezza marittima e pirateria
    • Sanzioni economiche >
      • A WORLD OF SANCTION 2017
      • A World of Sanctions 2016
  • Eventi
  • Album
  • Pubblicazioni e interventi
    • Elenco pubblicazioni
    • Contributi su libri
    • Articoli su riviste
    • Interventi sui Media
    • Pubblicazioni e interventi
    • Stampa e Media
    • Copertine pubblicazioni

Il processo di dissoluzione degli Stati lungo il confine meridionale della Turchia sta mettendo sempre più a rischio la sicurezza esterna ed interna del paese, in particolare dopo l’ascesa militare del cosiddetto ISIS e la sua espansione territoriale sia in Siria che in Iraq. Non che i confini con Siria ed Iraq siano in passato stati privi di minacce per la sicurezza turca, ma erano problemi in gran parte gestibili all’interno di relazioni bilaterali e statali con i paesi contermini, Siria, Iraq ed Iran. Oggi, i valichi di frontiera con la Siria e con l’Iraq sono gestiti dalle più diverse entità di carattere non statuale, che vanno dal più strutturato KRG (Kurdish Regional Government) nell’Iraq settentrionale, al PYD (il partito dell’Unione Democratica dei curdi siriani, affiliato al PKK), al Fronte Islamico, al Free Syrian Army, all’ISIS, fino alla Siria di Assad. La proliferazione degli attori è massima proprio all’interno del territorio siriano, dove ben 5 sono gli interlocutori possibili lungo il confine turco. Su 13 posti di confine, due sono controllati dall’esercito siriano di Damasco, due da quel che resta del fronte islamico, una dal Free Syrian Army, 3 dall’ISIS e 5 dai curdi siriani del PYD. A questa galassia di soggetti si aggiunge ovviamente il KRG, che controlla in buona parte il confine turco – iracheno.  La difficoltà di trattare con un numero così alto di vicini – ben 6 al posto di due – non è di per sé solo un aumento di complessità numerica, quanto anche qualitativa. Fatta eccezione per il KRG (e lasciando da parte il governo siriano con cui è aperto un conflitto) gli altri attori rappresentano attori non statuali ed entità politiche per lo più instabili e precarie con cui è difficile poter strutturare un discorso duraturo e, alcuni di essi, rappresentano anche attori illegali o ai margini della legalità con cui le relazioni devono essere intrattenute in maniera cauta e senza lasciare evidenze compromettenti. Anche perché la Turchia, nell’agire attraverso il suo confine meridionale, non si muove nel vuoto ma in un ambiente saturo di interessi di un numero impressionanti di Stati, anche alleati e vicini. Tutto ciò si traduce in una difficoltà ed imprevedibilità gestionale che difficilmente può consentire l’elaborazione di strategie di messa in sicurezza del confine, oltre il brevissimo periodo. In aggiunta a ciò la conflittualità esistente tra i numerosi attori asimmetrici che  vivono oltre il confine turco – attori che spesso sono umbrella organizzations di gruppuscoli più piccoli e maggiormente instabili – rende ulteriormente precaria ogni strategia di stabilizzazione. Purtroppo per Ankara sembra che a Sud del confine turco non vi siano le condizioni per creare opzioni geopolitiche alternative alle due storicamente disponibili: il mantenimento dei vecchi stati autoritari baathisti o la creazione di uno stato curdo autonomo. Lo sfaldamento dei primi e la mancata realizzazione del secondo hanno lasciato l’area in preda all’anarchia, che ha prodotto una polverizzazione geopolitica in mini feudi e piccoli esperimenti di amministrazione territoriale dal basso su base etnica o tribale. Ultimamente l’affermazione dell’ISIS ha cambiato le carte in tavola, facendo emergere una terza opzione geopolitica alternativa alle due precedenti, quella del califfato islamico jihadista. In maniera non dissimile a quanto avvenuto in Afghanistan con i Talebani e in Somalia con gli Shabaab, una prolungata guerra civile e la scomparsa delle istituzioni statuali crea il terreno ideale per la nascita di movimenti militari islamici che ripristinano le funzionalità sociali interrotte dal conflitto attraverso una rigida e radicale applicazione delle prescrizioni religiose, ottenendo in cambio supporto sociale e risorse. Lo stato islamico radicale come terza alternativa al modello di stato socialista autoritario e stato etnico appare dunque essere una realistica possibilità geopolitica, se non fosse però inaccettabile ad un vasto e trasversale schieramento internazionale di Stati. Ovviamente il fenomeno che lo rende inaccettabile è, in primo luogo, quello dei foreign fighters e dei flussi jihadisti internazionali che collegano lo stato islamico con le comunità islamiche di tutto il mondo, alimentando il fenomeno della radicalizzazione centrifuga. Apparentemente per Ankara né lo stato arabo baathista, né quello nazionale curdo su base etnica, ne quello islamico fondamentalista rappresentano delle opzioni geopolitiche praticabili, presentando ognuna un diverso mix di minacce e pericoli vitali. Quindici anni dopo l’intervento militare in Iraq è ormai chiaro che l’Iraq è un progetto geopolitico fallito, che non potrà essere ricostruito sotto alcun’altra forma politica. Non potendo mantenere lo status quo, dopo l’intervento militare in Iraq e dopo lo scoppio della guerra civile siriana, la strategia turca è stata – anche in Siria – quella di puntare alla creazione di entità parastatuali sulle quali esercitare forme di protettorato o di controllo diretto o indiretto, in maniera simile al modello iracheno. L’intenzione di proteggere il proprio fianco sud e di aumentare il proprio outreach all’interno delle aree fuori dal controllo effettivo di Baghdad e di Damasco si coniugava con la necessità dei gruppi combattenti di mantenere aperte le retrovie terrestri (confine con la Turchia) rispetto ai fronti del conflitto, e soprattutto di garantirsi quelle rendite commerciali (attraverso la vendita di prodotti petroliferi, il contrabbando e la gestione degli aiuti umanitari) fondamentali per mantenere in vita la resistenza. Allo stesso tempo, la guerra civile protratta e la de facto partizione di Siria ed Iraq producono per Ankara il non secondario risultato di impedire la ricostruzione di forti stati arabi a Sud, riducendo in maniera significativa la competizione al suo potere regionale.

L’aggravarsi della situazione e la costituzione di una coalizione internazionale anti-ISIS ha spinto Ankara a modificare la propria tattica, soprattutto dopo che una nuova offensiva delle forze dell’ISIS contro villaggi ed abitati curdi ha prodotto, in pochi giorni, un flusso di oltre 130.000 profughi curdi verso la Turchia. Nelle stesse ore Ankara risolveva la oscura crisi del console turco di Mosul e del suo staff sequestrati da ISIS, rimuovendo, di fatto il più concreto ostacolo che, almeno ufficialmente, aveva impedito un cambio di strategia nei confronti dell’ISIS. Ankara ha potuto quindi aderire alla coalizione internazionale anti ISIS. A metà settembre, in ritardo rispetto agli altri paesi e dopo il forte pressing statunitense alle Nazioni Unite, Ankara ha dichiarato per bocca del suo presidente che aderirà alla coalizione internazionale a guida americana contro ISIS. Dopo aver a lungo esitato e nascosto le proprie carte, la Turchia – attore chiave per il contenimento di ISIS – ha finalmente deciso di prendere una più netta posizione contro lo stato islamico che si è stabilito a cavallo tra Siria ed Iraq. Il presidente turco Erdogan ha offerto supporto sia politico che militare alla coalizione anti ISIS, rifiutandosi di definirlo uno Stato ed etichettandolo un semplice movimento terroristico. Interessante notare che le parole di Erdogan, apparentemente denigratorie nei confronti di ISIS e miranti a minimizzarne le capacità, in realtà potrebbero essere un riflesso condizionato dell’atavica paura turca di vedere emergere nuovi soggetti statuali a ridosso della frontiera meridionale. In altre parole, meglio un movimento terrorista che uno stato antagonista, parrebbe essere stato fino ad oggi l’approccio strategico turco alla questione della dissoluzione della Siria e dell’Iraq e l’ascesa dell’ISIS. Strategia che è cambiata nel momento in cui l’ISIS – che già da semplice movimento terrorista era diventato un esercito di guerriglia – ha puntato alla costituzione di un vero e proprio Stato. Stato che, ovviamente, sarebbe dotato di risorse proprie e dunque non controllabile dall’esterno attraverso il filtro di risorse economiche e militari provenienti da Ankara.  Altra osservazione è quella che le parole di Erdogan riecheggiano quelle di Obama, anche lui impegnato a dimostrare che ISIS non è uno Stato, ne mai lo potrà diventare. Forse, proprio in questa comune strategia di contrasto all’evoluzione di un soggetto terrorista in soggetto geopolitico, si sono ritrovati gli interessi comuni turco – americani, che sulla questione siriana erano stati a lungo divergenti. Nel frattempo, sotto la pressione dei rifugiati, la Turchia ha rispolverato il vecchio progetto della costituzione di una zona cuscinetto per accoglierli. Zona cuscinetto che le autorità di Ankara non hanno ben specificato dove sarebbe da costituirsi, ma essa avrebbe un senso strategico solo se lo fosse in Siria. Al milione e mezzo di rifugiati già arrivati in Turchia si stanno aggiungendo decine di migliaia di altri profughi frutto delle nuove avanzate dell’ISIS e dei suoi metodi terroristi contro le minoranze religiose ed etniche. La costruzione di una buffer zone in Siria e nel Kurdistan iracheno dove accogliere profughi arabi avrebbe anche il non secondario svantaggio per Ankara di relativizzare la presenza curda modificando, forse anche solo temporaneamente, la composizione demografica del nord di Siria ed Iraq.

Tre sono però i problemi principali che si possono intravedere per un eventuale costituzione di una buffer zone in territorio siriano.

Rischio di allargamento del conflitto: In primo luogo, ciò vorrebbe dire stabilire una presenza militare terrestre turca – o più verosimilmente a guida turca sotto bandiera delle Nazioni Unite – in territorio siriano, con un non secondario problema di possibili scontri con le forze militari siriane (e quindi di allargamento del conflitto) o anche con componenti dei ribelli che non sono favorevoli alla presenza turca in sira, siano essi curdi o meno;

Problema della gestione del confine. In secondo luogo una zona cuscinetto in cui accogliere, riallocare ed assistere i profughi avrebbe senso solo se venisse al tempo stesso sigillato il confine garantendo la non comunicabilità tra le due zone. Gli scontri che si sono registrati nelle scorse settimane in Turchia tra le guardie di confine turche e gruppi di curdi che volevano entrare in Siria per andare a combattere contro l’ISIS, sono un segnale della difficoltà di tenere separate le comunità tra le due parti del confine. Grandi comunità insediate a ridosso del confine turco, comunque finirebbero per “premere” sul confine, che potrà essere sigillato solo correndo il rischio di gravi disordini sociali. Il governo turco, per il momento, sta pensando di mandare 50.000 altre guardie di confine – con armamento pesante – per presidiare i valichi e aumentare le aree del confine direttamente presidiate;

Problema del disarmo delle milizie. Infine, una buffer zone ed una presenza militare turca ed internazionale in territorio siriano dovrebbe avere come precondizione il disarmo delle milizie territoriali che operano nell’area ed il loro inquadramento in forze di polizia territoriali, cosa estremamente difficile da ottenere specialmente per quelle curde e per quelle dei gruppi islamisti più radicali.

È comunque da ritenersi che il governo turco continuerà a lavorare a lungo sul progetto di costituzione di una zona cuscinetto in Siria, che – ancorché prematura – essa potrebbe ben presto prestarsi ad una pluralità di utilizzi. Nel momento in cui le operazione militari contro l’ISIS dovessero avanzare al punto da causare un potenziale collasso del sistema di controllo territoriale costruito dallo Stato islamico, una buffer zone sotto controllo internazionale potrebbe rappresentare uno strumento per evitare, almeno temporaneamente, che altri attori non statuali operanti nell’area possano beneficiare dal vuoto geopolitico che si verrebbe a creare.  

Proudly powered by Weebly
  • Paolo Quercia
  • Profilo
  • Cenass
    • Estero Vicino
  • Ricerca e analisi
    • Geopolitica >
      • Balcani e Sud Est
      • Turchia
      • Mediterraneo
      • Corno d'Africa
    • Relazioni internazionali e sicurezza >
      • Politica Estera
      • Sicurezza e migrazioni
      • Islamismo, Radicalizzazione, Jihad, foreign fighter
    • Sicurezza marittima e pirateria
    • Sanzioni economiche >
      • A WORLD OF SANCTION 2017
      • A World of Sanctions 2016
  • Eventi
  • Album
  • Pubblicazioni e interventi
    • Elenco pubblicazioni
    • Contributi su libri
    • Articoli su riviste
    • Interventi sui Media
    • Pubblicazioni e interventi
    • Stampa e Media
    • Copertine pubblicazioni