Esistono ancora i fantasmi dei Balcani ?
Ma davvero, a vent’anni dalla firma degli accordi di pace di Dayton e ad un secolo dall’attentato di Sarajevo, i Balcani possono nuovamente assurgere ad uno dei punti di frizione di un rinnovato scenario di tensione EU/USA/Russia? Sono in molti a temerlo, anche se, se ciò dovesse accadere, non sarà né per forza autonoma, né per gravità delle situazioni etno-politiche dei Balcani, ma piuttosto per un combinato disposto di cattiva gestione delle crisi, mancata costruzione di un progetto di stabilizzazione intermedio all’ingresso nella UE, ricadute geopolitiche del deterioramento del partenariato strategico EU – Russia. Ad ogni modo, è corretto ritenere che, di tutte le spine balcaniche, la Bosnia Erzegovina rappresenta la polveriera più pericolosa, non tanto per la probabilità di un nuovo conflitto interno, che non appare imminente, quanto piuttosto per la facilità con cui le pressioni politiche e nazionalistiche che si addensano nel paese, possono essere sfruttate tanto da ambienti nazionalisti serbi (di Serbia o di Kosovo), quanto da parte di Mosca nel caso di un allargamento dei punti di tensione con l’Occidente. E qui, probabilmente, nel caso bosniaco fu commesso un errore nel 2009, quando si avviò la creazione dell’ufficio dell’Alto Rappresentante della UE nel paese (EUSR) a spese del Ufficio dell’Alto Rappresentante del Segretario Generale delle Nazioni Unite per l’attuazione degli Accordi di Pace (OHR) che aveva poteri estesi di intervento nei confronti delle entità sub-statuali.
Con il 2015, dopo l’Ucraina e dopo la Siria, le vecchie vulnerabilità balcaniche acquistano un nuovo significato alla luce della nuova assertività di Mosca che – liberatasi nei Balcani del progetto South Stream, la cui realizzazione rappresentava un vincolo comportamentale per tutti gli strakeholders – è ora libera se lo desidera di alzare la voce sulla situazione regionale, come ha fatto, nel settembre scorso, il ministro degli esteri russo Lavrov, equiparando un’eventuale espansione della NATO nei Balcani Occidentali ad un atto provocatorio. Chiaro era il riferimento ai tentativi di accelerare i tempi di adesione del Montenegro alla NATO. In questo contesto, è doveroso osservare che nel corso del 2015, in parallelo ad una depressa condizione economica del paese, è riemersa la vecchia questione del referendum di secessione della entità serba (RS) della Bosnia Erzegovina, ora mascherato da un nuovo tentativo del presidente Dodik di spingere verso la dissoluzione degli accordi di Dayton, questa volta non con un referendum diretto di uscita della RS dalla BiH, quanto piuttosto contestando l’autorità legislativa dei tribunali dello Stato centrale sul territorio della RS e quella dell’ufficio del procuratore centrale. Ciò in previsione di tenere, nel 2018, un nuovo referendum sulla secessione sempre nella convinzione che l’attuale configurazione di Dayton rappresenti una soluzione temporanea e non definitiva al problema dell’autonomia dalla Stato centrale delle nazionalità della Bosnia Erzegovina. Anche per contenere questo tipo di minacce, permane sul terreno la missione militare della UE Althea, la più importante delle missioni militari della UE e l’unica in corso con un mandato non di assistenza ma di peace-keeping e stabilizzazione post-conflict.
La ripresa della spinta geopolitica russa non è l’unico fattore di compressione delle vulnerabilità balcaniche. Anche la guerra civile siriana e l’emersione dell’ISIS al confine della Turchia hanno finito per mandare attraverso i Balcani preoccupanti segnali di pericolo, come evidenziato dall’esplosione del fenomeno della radicalizzazione dell’Islam balcanico e della crescita nel numero dei foreign fighter nella regione; a ciò si unisce il caos alle frontiere legato al fenomeno del flusso di migranti e rifugiati provenienti, dal medio oriente e diretti – attraverso la Turchia e la Grecia verso la rotta balcanica che conduce al cuore dell’Europa.
L’esplosione del fenomeno dei foreign fighter balcanici diretti verso i territori dell’ISIS, ci ricorda che la regione balcanica non rappresenta solamente uno spazio dove si intersecano gli interessi europei e russi ma anche uno spazio d’incontro con l’Islam mediorientale. Uno spazio che non è al riparo dei processi di radicalizzazione ma anzi è al centro dell’azione di reclutamento e espansione dello Stato Islamico, ma è anche oggetto delle tradizionali politiche di influenza di potenze islamiche emergenti come Turchia, Iran ed Arabia Saudita. Nonostante tutti i paesi della regione, Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia abbiano tutti adottato leggi che criminalizzano la partecipazione a guerre civili all’estero ed il supporto all’ISIS, il fenomeno sembra essere estremamente difficile a contenere ed in continua crescita, con i Balcani che rappresentano sia un serbatoio di reclutamento che una via di accesso (e di fuga) dal teatro siriano – iracheno. Una parte del flusso balcanico di foreign fighter è in realtà non direttamente originato nei Balcani stessi ma rappresentato da cittadini della regione nati o cresciti in Europa e rientrati nei Balcani in seguito al fallimento dei propri percorsi d’integrazione e già parzialmente radicalizzati. Nei loro territori d’origine etnica sono però esposti a maggiori attività di reclutamento e proselitismo e a minori controlli. Ad ogni modo, stando alle stime del 2014, sono oltre 650 i combattenti per l’ISIS provenienti dai paesi balcanici. Un dato preoccupante considerato che il numero di mussulmani residenti nei Balcani è di poco superiore ai 6.000.000, il che produce un indice di radicalizzazione 3 volte superiore alla media mondiale (Vedi “I Foreign Fighter Europei. Contributi per una riflessione strategica”. Supplemento 1/2015 Osservatorio Strategico CeMiSS). La situazione è ulteriormente peggiorata nel corso del 2015, con le stime del numero di jihadisti stranieri in Siria ed Iraq che ormai supera le 30.000 unità, secondo fonti di intelligence USA citate dal New York Times, con un aumento superiore al 30% nell’ultimo anno ed un flusso di almeno 1,000 nuovi combattenti al mese. Oltre al fatto che buona parte di quei mille potrebbe passare proprio per i Balcani per arrivare in Siria, tali dati fanno ritenere che nel corso del 2015 vi sia stato un proporzionale incremento del numero dei jihadisti provenienti dai paesi balcanici combattenti nell’ISIS e che esso abbia ormai superato le 1.000 unità.
Infine, la crisi migratoria riversatasi dai Balcani alla Turchia, ha dimostrato sia la fragilità della Grecia e dei paesi Balcanici, sia una certa malafede di Ankara nell’assecondare la fuga dai propri campi profughi e l’attraversamento illegale delle frontiere. Soprattutto, questa crisi ha dimostrato le fragilità nella protezione civile di molti paesi balcanici, la mancanza di meccanismi di early warning e l’incapacità dei paesi della regione a fare fronte comune per gestire congiuntamente situazioni d’emergenza umanitaria. Al contrario la reazione tipica è stata quella di avviare misure di autoprotezione territoriale, volte a deviare nel paese limitrofo il traffico illegale, provocando tensioni, chiusure di frontiere e rischiando persino di produrre una guerra commerciale tra Slovenia e Croazia, due paesi membri dell’Unione Europea. Da questo punto di vista hanno sorpreso le recenti dichiarazione del cancelliere tedesco Merkel sulle possibili connessioni tra flussi di rifugiati e conflitti potenziali nei Balcani (“there are already tensions in the Western Balkan countries, and I did not want military conflicts to occur there”).
Con il 2015, dopo l’Ucraina e dopo la Siria, le vecchie vulnerabilità balcaniche acquistano un nuovo significato alla luce della nuova assertività di Mosca che – liberatasi nei Balcani del progetto South Stream, la cui realizzazione rappresentava un vincolo comportamentale per tutti gli strakeholders – è ora libera se lo desidera di alzare la voce sulla situazione regionale, come ha fatto, nel settembre scorso, il ministro degli esteri russo Lavrov, equiparando un’eventuale espansione della NATO nei Balcani Occidentali ad un atto provocatorio. Chiaro era il riferimento ai tentativi di accelerare i tempi di adesione del Montenegro alla NATO. In questo contesto, è doveroso osservare che nel corso del 2015, in parallelo ad una depressa condizione economica del paese, è riemersa la vecchia questione del referendum di secessione della entità serba (RS) della Bosnia Erzegovina, ora mascherato da un nuovo tentativo del presidente Dodik di spingere verso la dissoluzione degli accordi di Dayton, questa volta non con un referendum diretto di uscita della RS dalla BiH, quanto piuttosto contestando l’autorità legislativa dei tribunali dello Stato centrale sul territorio della RS e quella dell’ufficio del procuratore centrale. Ciò in previsione di tenere, nel 2018, un nuovo referendum sulla secessione sempre nella convinzione che l’attuale configurazione di Dayton rappresenti una soluzione temporanea e non definitiva al problema dell’autonomia dalla Stato centrale delle nazionalità della Bosnia Erzegovina. Anche per contenere questo tipo di minacce, permane sul terreno la missione militare della UE Althea, la più importante delle missioni militari della UE e l’unica in corso con un mandato non di assistenza ma di peace-keeping e stabilizzazione post-conflict.
La ripresa della spinta geopolitica russa non è l’unico fattore di compressione delle vulnerabilità balcaniche. Anche la guerra civile siriana e l’emersione dell’ISIS al confine della Turchia hanno finito per mandare attraverso i Balcani preoccupanti segnali di pericolo, come evidenziato dall’esplosione del fenomeno della radicalizzazione dell’Islam balcanico e della crescita nel numero dei foreign fighter nella regione; a ciò si unisce il caos alle frontiere legato al fenomeno del flusso di migranti e rifugiati provenienti, dal medio oriente e diretti – attraverso la Turchia e la Grecia verso la rotta balcanica che conduce al cuore dell’Europa.
L’esplosione del fenomeno dei foreign fighter balcanici diretti verso i territori dell’ISIS, ci ricorda che la regione balcanica non rappresenta solamente uno spazio dove si intersecano gli interessi europei e russi ma anche uno spazio d’incontro con l’Islam mediorientale. Uno spazio che non è al riparo dei processi di radicalizzazione ma anzi è al centro dell’azione di reclutamento e espansione dello Stato Islamico, ma è anche oggetto delle tradizionali politiche di influenza di potenze islamiche emergenti come Turchia, Iran ed Arabia Saudita. Nonostante tutti i paesi della regione, Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro, Serbia abbiano tutti adottato leggi che criminalizzano la partecipazione a guerre civili all’estero ed il supporto all’ISIS, il fenomeno sembra essere estremamente difficile a contenere ed in continua crescita, con i Balcani che rappresentano sia un serbatoio di reclutamento che una via di accesso (e di fuga) dal teatro siriano – iracheno. Una parte del flusso balcanico di foreign fighter è in realtà non direttamente originato nei Balcani stessi ma rappresentato da cittadini della regione nati o cresciti in Europa e rientrati nei Balcani in seguito al fallimento dei propri percorsi d’integrazione e già parzialmente radicalizzati. Nei loro territori d’origine etnica sono però esposti a maggiori attività di reclutamento e proselitismo e a minori controlli. Ad ogni modo, stando alle stime del 2014, sono oltre 650 i combattenti per l’ISIS provenienti dai paesi balcanici. Un dato preoccupante considerato che il numero di mussulmani residenti nei Balcani è di poco superiore ai 6.000.000, il che produce un indice di radicalizzazione 3 volte superiore alla media mondiale (Vedi “I Foreign Fighter Europei. Contributi per una riflessione strategica”. Supplemento 1/2015 Osservatorio Strategico CeMiSS). La situazione è ulteriormente peggiorata nel corso del 2015, con le stime del numero di jihadisti stranieri in Siria ed Iraq che ormai supera le 30.000 unità, secondo fonti di intelligence USA citate dal New York Times, con un aumento superiore al 30% nell’ultimo anno ed un flusso di almeno 1,000 nuovi combattenti al mese. Oltre al fatto che buona parte di quei mille potrebbe passare proprio per i Balcani per arrivare in Siria, tali dati fanno ritenere che nel corso del 2015 vi sia stato un proporzionale incremento del numero dei jihadisti provenienti dai paesi balcanici combattenti nell’ISIS e che esso abbia ormai superato le 1.000 unità.
Infine, la crisi migratoria riversatasi dai Balcani alla Turchia, ha dimostrato sia la fragilità della Grecia e dei paesi Balcanici, sia una certa malafede di Ankara nell’assecondare la fuga dai propri campi profughi e l’attraversamento illegale delle frontiere. Soprattutto, questa crisi ha dimostrato le fragilità nella protezione civile di molti paesi balcanici, la mancanza di meccanismi di early warning e l’incapacità dei paesi della regione a fare fronte comune per gestire congiuntamente situazioni d’emergenza umanitaria. Al contrario la reazione tipica è stata quella di avviare misure di autoprotezione territoriale, volte a deviare nel paese limitrofo il traffico illegale, provocando tensioni, chiusure di frontiere e rischiando persino di produrre una guerra commerciale tra Slovenia e Croazia, due paesi membri dell’Unione Europea. Da questo punto di vista hanno sorpreso le recenti dichiarazione del cancelliere tedesco Merkel sulle possibili connessioni tra flussi di rifugiati e conflitti potenziali nei Balcani (“there are already tensions in the Western Balkan countries, and I did not want military conflicts to occur there”).