Un gruppo di foriegn fighters albanofoni brucia i propri passaporti e dichiara fedeltà allo Stato Islamico. La mappa delle provenienze dei combattenti stranieri
Foreign fighters o Domestic fighters?
L’Europa nella trappola del jihadismo transnazionale
di Paolo Quercia, gennaio 2015
Gli attentati di Parigi hanno reso evidente al grande pubblico la complessità della nuova realtà della jihad transnazionale e di quanto l’Europa intera sia ormai interessata da questo fenomeno. L’analisi deve partire dal focalizzare la mutazione del problema, che vede l’Europa essere non più solamente un target della jihad globale, ma ormai anche una delle sue radici, forse più profonda di quanto conosciamo o vogliamo ammettere. Questo mutamento è avvenuto nello scorso decennio, in buona parte nel sonno della politica, che non ha visto o ha volutamente preferito tacere su un problema le cui dimensioni sono palesemente sfuggite di mano. La guerra in Siria degli ultimi 4 anni ha rappresentato il fattore che, più di ogni altro, ha amplificato, come non mai nella trentennale storia della jihad contemporaneo, sia il numero totale dei combattenti stranieri, mai così alto, sia il peso della quota del jihadismo europeo al suo interno, anch’esso mai così consistente.
È chiaro che nell’ultimo decennio è lo stesso concetto di Jihad che è andato incontro ad una progressiva trasformazione, anche in funzione del suo intersecarsi con almeno cinque fenomeni di portata significativa che hanno avuto luogo negli ultimi lustri: 1) l’evoluzione del conflitto iracheno dopo il 2003 e la sua deriva dopo il ritiro delle forze statunitensi nel 2011; 2) l’esplosione delle primavere arabe ed il loro fallimento; 3) lo scoppio della violenta e settaria guerra civile siriana; 4) l’ascesa di movimenti populisti pan-islamici in diversi paesi; 5) l’emersione di tendenze al radicalismo islamista da parte delle nuove generazioni delle comunità della diaspora mussulmana in Europa.
A causa di questo mix di fattori, l’Europa negli ultimi anni è divenuta sempre più vicina alle terre della Jihad, sia in senso “fisico”, a causa dell’ “avvicinarsi” delle aree di conflitto che ormai lambiscono le coste del Mare Mediterraneo, sia per l’internazionalizzazione dello stesso concetto di Jihad, che riguarda sempre meno il diritto individuale di difesa da un aggressione e sempre più muta in un diritto collettivo dell’intera comunità globale mussulmana. La Jihad transnazionale - che come nel caso degli attentatori parigini può divenire un vero patchwork geopolitico di conflitti locali (Yemen, Siria, Iraq, Francia) esercita ovviamente un richiamo anche per la diaspora mussulmana europea, sia per gli strati ideologicamente più predisposti alla radicalizazione, che per quelli socialmente più vulnerabili.
La transnazionalizzazione della Jihad rappresenta un grave pericolo per la sicurezza interna europea, in quanto in tale dimensione a-territoriale, la componente dei foreign fighters viene a rappresentare un fattore molto più importante che in altre tipologie di conflitto, dove ciò che attiva il combattente è la specifica situazione interna del paese in conflitto e la sua dimensione regionale o religioso/settaria. Nella jihad transnazionale, invece, ogni teatro rappresenta una tessera di un mosaico più ampio, che tende a sfumare le differenze tra gli specifici scenari di conflitto e soprattutto tra il fronte all’estero ed il fronte interno. Nella jihad transnazionale un foreign fighter globale può, con maggiore facilità, diventare un domestic fighter nel suo paese di provenienza. Può cioè mescolare discrezionalmente per ideologia, tattica o opportunità, il livello insurrezionale di guerriglia all’estero con quello di terrorismo a casa (due livelli le cui differenze, per inciso, tendono a ridursi e a confondersi sempre più).
La guerra siriana passerà alla storia come una vera – probabilmente la prima – jihad globale combattuta alle porte dell’Europa, con una massiccia partecipazione di combattenti europei di religione islamica. Processo favorito, non dimentichiamolo, anche dalle scelte politiche di sostegno alla guerriglia anti regime inizialmente sostenuta da molti paesi europei, occidentali ed arabi. Fino al conflitto siriano, il fenomeno dei foreign fighters era rimasto un aspetto marginale della Jihad, praticamente sconosciuto fino agli anni ottanta, quando è comparso come una componente del conflitto afgano. Si stima che, nel trentennio che va dal 1980 al 2010 sono stati tra i 20.000 ed i 30.000 i combattenti stranieri che hanno preso parte ad una delle tante guerre sante avvenute in numerosi teatri di guerra, dalla Bosnia fino alle Filippine. Il conflitto che ha visto il maggior numero di foreign fighters è stato senza dubbio quello afghano. Qui, il numero di combattenti stranieri totale viene stimato tra i 10.000 ed i 20.000 durante l’intera durata del decennale conflitto e, in nessuna fase della guerra, essi superarono mai le 5.000 unità. Per fare un paragone, il conflitto siriano, in soli 3 anni di guerra ha già visto passare più di 15.000 foreign fighters di cui, circa un 20% cittadini europei o residenti in Europa. È chiaro che questi numeri devono preoccupare, se si pensa agli enormi problemi di sicurezza che le poche migliaia di combattenti afghani rientrati hanno originato in vari paesi, a partire dalla guerra civile algerina.
Gli eventi di Parigi e lo strano ritardo dell’Occidente
Già a partire dalla scorsa primavera, era abbastanza chiaro che il 2014 sarebbe stato l’anno dell’esplosione del fenomeno dei foreign fighters di ritorno dalla Siria. Chi studia queste dinamiche aveva ben chiaro che, dopo tre anni dallo scoppio del sanguinoso conflitto, il ciclo radicalizzazione/jihadismo/rientro era ormai giunto a maturazione per centinaia e migliaia di combattenti. Nella prima metà del 2014, almeno un terzo degli oltre diecimila combattenti stranieri era rientrato nei paesi di origine ed il picco era atteso nel corso dell’estate. Solo nei paesi dello spazio Schengen (ed in quelli ad essa collegati in funzione di accordi di circolazione visa free), gli ex combattenti siriani già rientrati possono essere stimati attorno al migliaio. Nel maggio 2014 un reduce dalla Siria compie a Bruxelles una strage in una sinagoga. Nel settembre dello scorso anno, l’emergenza della situazione era ormai condivisa anche a livello internazionale: in quel mese due Risoluzioni, una del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e l’altra del Parlamento Europeo avevano invitato la comunità internazionale ad apportare modifiche alle legislazioni nazionali per impedire la libera circolazione, ed in particolare il rientro, dei combattenti jihadisti sospettati di voler esportare la jihad dal territorio siriano a quello metropolitano europeo. La cosa più sconcertante è però rappresenta dal fatto che nessun provvedimento restrittivo sia stato preso nei primi due/tre anni del conflitto per evitare che migliaia di europei andassero a combattere in Siria. La sospetta verità è che, di fatto, ci si è accorti di quanti fossero gli europei partiti per la Siria solo nel momento in cui essi sono iniziati a rientrare in Europa. In questo contesto, le nuove normative che alcuni paesi europei hanno introdotto ed altri stanno introducendo possono sono ridurre il danno per la parte futura del conflitto, ma non diminuire la minaccia che le migliaia di foreign fighters europei già ritornati potranno portare nei prossimi anni alla sicurezza europea.
Un pericolo sottovalutato: La Jihad transnazionale come adattamento globale di narrative che vengono da lontano
Anche se non sono ancora chiari i percorsi personali dei terroristi di Parigi, le loro affiliazioni, e non vi è certezza se possono essere inseriti nella categoria dei foreign fighters, appare già dalle prime informazioni che essi possono essere qualificati come esponenti ideali della contemporanea jihad globale di tipo transnazionale. Questo tipo di jihad, in realtà, sul piano dottrinario recupera la narrativa di un certo tipo d’islamismo radicale sviluppatosi agli inizi della seconda metà del novecento, la cui attualizzazione ben si presta al superamento dei confini geografici tipico dell’attuale fase di un certo jihadismo. La confusione di ruoli tra domestic fighters e foreign fighters, viene ad essere possibile in un sistema di riferimento in cui la jihad non conosce confini geografici ma piuttosto si basa sull’intercambiabilità dei teatri operativi, che si susseguono senza una vera soluzione di continuità. In un tale contesto, le cellule jihadiste possono discrezionalmente spostare la lotta violenta da società islamiche contemporanee a società occidentali, adeguandone le tattiche ai diversi scenari. Il network di estremisti radicali del 19° distretto parigino da cui sono venuti i terroristi del 7 gennaio sembra che abbiano costruito una propria jihad à la carte, mettendo insieme frammenti di jihad molto diversi l’uno dall’altro: dal reclutamento di volontari per combattere gli americani in Iraq, alla partecipazione al conflitto siriano e alle relazioni con ISIS, ai collegamenti nello Yemen con le reti di AQAP, all’eliminazione di politici secolaristi in Tunisia, fino alle stragi parigine di giornalisti laici ritenuti blasfemi e di ebrei francesi. Questa jihad apparentemente così destrutturato e globalizzato, in realtà viene ad essere perfettamente compatibile con gli antichi insegnamenti del più grande maestro del radicalismo islamista contemporaneo, l’egiziano Sayyid Qutb. Qutb introdusse per primo il concetto di “jahiliyya moderna”, che accomuna in un'unica categoria di stato di ignoranza e barbarie, tutte le società moderne non basate sull’applicazione diretta e pura della Sharia, ma costruite attorno a leggi prodotte dagli uomini, siano esse società occidentali o islamiche. Ecco che la Siria e Parigi, la Tunisia o lo Yemen, possono tutti cadere all’interno di uno stesso disegno di lotta alla jahiliyya moderna. Giusto per inciso, non è secondario sottolineare che, il pensiero di Qutb non è privo di componenti fortemente anarchiche, finendo per considerare barbara ogni forma di governo degli uomini sugli uomini che separa la comunità di credenti dal rapporto diretto con Dio stesso e con le sue leggi. Questo tipo di narrativa – che nonostante il fascino prodotto in diversi ambienti è stata rifiutata già dagli anni settanta dalla stessa Fratellanza Mussulmana, dalle cui fila Qutb comunque proveniva – ha profondamente influenzato sia la base ideologica di al-Qaeda sia i più recenti principi su cui è basato l’ISIS. Il neo-qutbismo appare essere compatibile con le forme più transnazionali di Jihad in quanto esso trasforma la jihad in un dovere collettivo ed attivo e, di fatto, mette sullo stesso piano ogni società contemporanea, islamica o meno. La transnazionalità della jihad viene a costruire un nuovo spazio al di fuori del controllo degli Stati tradizionali, una dimensione dove – in maniera non dissimile alle grotte tra le montagne dell’Egitto centrale ove si rifugiavano negli anni settanta gli adepti di Jama'at al-Muslimin (la società dei Mussulmani) seguaci di Shukri Mustafa. – si può ricreare in separazione dal mondo empio, una virtuale società di veri mussulmani, uniti dal rifiuto delle società pagane della jahiliyya e votati a distruggerne le istituzioni.
Il fatto che le società occidentali ed europee siano state interessate anch’esse dal fenomeno della radicalizzazione islamista, che è ovviamente fenomeno diverso dal jihadismo ma ad esso contiguo, contribuisce a rendere estremamente pericolosi i flussi di rientro dei combattenti jihadisti verso l’Europa, non solo per le capacità militari ed operative che essi possono avere appreso, ma anche in quanto il reducismo dal fronte di ex combattenti residenti o cittadini europei, può facilmente rappresentare l’innesco di un più vasto e sotterraneo infiammabile mondo dell’islamismo radicale della diaspora, di cui è spesso difficile conoscere portata, ramificazioni ed intenzioni.
La legge anti-jihad francese del novembre 2014
Anche per questi motivi, la Francia, il principale contributore europeo di combattenti jihadisti in Siria con circa un migliaio di volontari, e primo paese europeo per comunità residente di mussulmani, aveva cercato di anticipare i tempi, muovendosi già prima dell’estate 2014. Eppure ciò non è servito a evitare i drammatici fatti parigini del 7 – 9 gennaio 2015, che hanno dimostrato sia la serietà dei segnali di pericolo sui flussi di rientro dei foreign fighters dalla Siria e dall’Iraq ma anche la profondità raggiunta dalla minaccia. I viaggi e i contatti degli attentatori parigini in Iraq e Yemen e iniziano diversi anni fa mentre gli ultimi recenti contatti in Siria nel territorio sotto controllo dell’ISIS risalirebbero, secondo fonti investigative francesi, a prima dell’estate scorsa. Dunque, pochi mesi prima dell’entrata in vigore della normativa che avrebbe dovuto impedire ai sospetti i viaggi verso i paesi in cui si combatte la Jihad.
Il governo francese era dunque ben consapevole della dimensione della minaccia interna collegata al jihadismo internazionale, al punto che il 9 luglio 2014 il ministro degli interni Cazenueve ha presentato con urgenza la nuova proposta di legge per “rafforzare le disposizioni relative alla lotta contro il terrorismo”, che sarebbe poi diventata la legge 1353 del 2014. Era un atto necessario per colmare un vuoto nella legislazione anti-terrorismo nazionale in mancanza della quale il diritto alla jihad all’estero di chiunque avrebbe continuato a prevalere sulle misure di sicurezza antiterroristiche e sullo stesso buon senso. La legge fornisce, per il futuro, lo strumento legale alle autorità giudiziarie francesi per interdire l’abbandono del territorio nazionale di propri cittadini quando vi sono delle “raisons sériouses” di credere che il viaggio all’estero abbia per obiettivo la partecipazione a delle attività terroristiche, a dei crimini di guerra o a dei crimini contro l’umanità; o, più semplicemente, l’individuo che vuole abbandonare il territorio nazionale ha intenzione di dirigersi verso un “teatro di operazioni in cui operano gruppi terroristici”. Affinché questi comportamenti possano essere sanzionati, la legge francese prevede che debba esservi anche il sospetto che l’individuo sia in grado e voglia portare a termine azioni contro la sicurezza pubblica nazionale una volta rientrato in Francia. Si mira sostanzialmente a colpire non tanto il combattimento all’estero in quanto tale, ma piuttosto il connesso “effetto boomerang” di ritorno. La proposta di legge, presentata prima dell’estate è stata discussa nelle due camere, emendata, ed approvata in un tempo estremamente rapido, per essere pubblicata in gazzetta ufficiale agli inizi di novembre 2014.
La miopia della politica, lo scaricabarile sull’intelligence e le incognite del futuro
Il conflitto siriano ha rappresentato per tutta l’Europa un enorme acceleratore ed incubatore del jihadismo, il teatro di una turbo-jihad in cui un numero estremamente elevato di cittadini occidentali si è unito ad altri combattenti stranieri provenienti da pressoché tutto il mondo islamico. La Siria, per migliaia di persone, ha rappresentato una porta girevole della jihad, un meccanismo veloce e a porta di mano di tutti con cui provare l’esperienza della radicalizzazione anche solo per periodi brevi, trasformando la guerra contro Assad in un grande campo di addestramento per ogni tipo di jihadismo. Da questo punto di vista, la creazione dello Stato Islamico, può essere anche vista come una specie di struttura di servizio per le decine di jihad che ora convergono da tutte le parti del mondo sull’area della Mesopotamia e che mantengono una duplice agenda siriano-irachena e domestica. Ex post, appare oggi evidente che l’Europa intera abbia sottovalutato in maniera impressionante la pericolosità del conflitto siriano e soprattutto abbia mancato di comprendere le trasformazioni della jihad islamica ed i suoi effetti sulle debolezze delle società multiculturali europee. Si aprirà ora in Europa un grande periodo d’incertezza, che finirà per mettere sotto discussione molti dei principi su cui si credeva fossero costruite le società democratiche occidentali. Dare la colpa alle intelligence per non aver monitorato il sospetto tizio o caio, o non aver raccolto o collegato tra loro informazioni utili, vuol dire non aver compreso la profondità e strutturalità delle minacce che società aperte e parzialmente ma incrementalmente multiculturali hanno di fronte nel prossimo decennio. È la politica che deve prendere coscienza del proprio fallimento nell’aver sottovalutato la dimensione della sicurezza interna nei processi di trasformazione e di apertura delle società europee, mancando di vederne vulnerabilità e limiti. Oggi, a quindici anni dall’undici settembre, la corsa a legiferare per costruire, di fatto, un “reato di partecipazione alla jihad” appare un paliativo. Non perché esso non sia utile o avviene in ritardo rispetto a quanto già fatto da molti paesi islamici, ma anche balcanici e dell’Europa orientale, ma perché esso apre una serie infinita di problemi di ordine politico, culturale, costituzionale, demografico e di sicurezza su cui i paesi europei non riusciranno a trovare una linea comune, rendendo di fatto inefficaci tali misure; ma soprattutto, non riusciranno a trasformare e riprogettare le proprie società, minimizzando in esse il rischio che una jihad europea possa progressivamente nascere dai tentacoli di quella transnazionale. Esso sarà un rischio costante che accompagnerà l’evoluzione delle nostre società e che condizionerà sempre più sia le politiche interne che quelle internazionali dell’Unione. Da questo punto di vista, la grande manifestazione di Parigi – di popolo e di governi – può essere vista sia come una prova di forza e di compattezza, ma anche come una dimostrazione di debolezza estrema e di incertezza verso il futuro.
(pubblicato su Il Nodo di Gordio N.7 2015, www.nododigordio.org)