Paolo Quercia
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Analisi
L'Europa Sud Orientale si prepara al riflusso dei combattenti jihadisti dalla Siria

Così come in tutto l’Occidente, anche nei Balcani sta crescendo l’allarme per il rientro di combattenti jihadisti dalla Siria, un fenomeno intensificatosi nell’ultimo anno. Dall’estate 2013 molti governi europei ed agenzie di sicurezza hanno iniziato ad aumentare il livello d’attenzione sulla questione dei rientri di centinaia e centinaia di combattenti stranieri tutt’ora presenti in Siria. L’allarme è diventato rosso dopo che, il 24 maggio 2014, un cittadino francese ex combattente jihadista in Siria ha compiuto una strage nel Museo ebraico di Bruxelle Varie congiunture sembrano indicare un prevedibile aumento dei flussi di rientri dalla Siria nella primavera – estate del 2014, favoriti non solo dai successi militari governativi degli scorsi mesi e dall’arretramento delle forze d’opposizione (a Damasco, Homs, Aleppo così come nel Sud del paese) ma soprattutto dai 5 mesi di conflitto apertosi all’interno del fronte anti-Assad tra le forze del Free Syrian Army (appositamente rinforzato all’uopo) e quelle dell’ISIS, formazione dove militano la maggior parte di combattenti stranieri. A livello macro, anche la più generale, riduzione delle ambizioni strategiche del fronte diplomatico internazionale anti-Assad ha operato, verosimilmente, nella direzione di favorire i rientri dalla Siria verso un’ampia fascia di paesi.

Attualmente, il riflusso di combattenti dal fronte siriano ai paesi di provenienza rappresenta una delle principali minacce emergenti alla sicurezza nazionale di un’ampia fascia di paesi dell’intero spazio euro-mediterraneo, come si evince dalle diverse tipologie di ostacoli che quasi tutti gli Stati stanno cercando di mettere in atto per scoraggiare il rientro. La Turchia, in particolare, rischia di essere il paese maggiormente influenzato dalle politiche di blocco dei rientri che paesi terzi possono mettere in atto. Le autorità del Marocco, ad esempio, da qualche mese hanno iniziato ad arrestare i combattenti che ritornano a casa dalla Siria, con il chiaro obiettivo di divergere il flusso dei rientri o verso altri paesi o verso una permanenza in Siria o in Turchia. Nel marzo scorso l’Arabia Saudita ha messo nella lista delle organizzazioni terroristiche sia lo Stato Islamico di Iraq e Siria (ISIS) che il Fronte al-Nusra. Il decreto saudita prevedeva una sorta di amnistia sotto forma di un breve ultimatum di 15 giorni per rientrare in patria, trascorsi i quali è entrato in vigore un sistema di criminalizzazione del cittadini sauditi che combattono all’estero con pene di carcerazione fino a 20 anni. Simili atti sono stati intrapresi da Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Ovviamente l’inserimento di un gruppo combattente nella lista dei gruppi terroristici rappresenta uno dei presupposti per poter adottare interventi repressivi contro i propri jihadisti che hanno partecipato al conflitto siriano all’interno di quei gruppi. Dai primi mesi del 2014 si è aperta, in altre parole, la complessa ed ambigua partita dei ritorni e delle contromisure per deviarne i flussi. Il presente articolo illustra il ruolo che la Turchia in particolare ed i Balcani più in generale hanno in questo processo, che comprende numerosi dilemmi sui più opportuni atteggiamenti da tenere nei confronti di un fenomeno che rappresenta una delle più complesse questioni per la homeland security. Pur non affrontando nel dettaglio questa specifica questione, sarà utile tenere presente che la gestione del fenomeno oscilla solitamente attorno a due politiche, non necessariamente complementari: quella del contrasto al proselitismo jihadista in casa e quella del contrasto al rientro in patria dai teatri di guerra. La prima riguarda le politiche di prevenzione della radicalizzazione dei propri cittadini, la seconda quelle della de-radicalizzazione. L’adozione di politiche anti-jihadiste messe in atto da numerosi paesi mussulmani specificatamente mirate al caso siriano, ha aperto il dibattito anche in molti paesi balcanici, i cui governi stanno studiando le migliori contromisure per contrastare o gestire i rientri dalla Siria di propri cittadini o di cittadini di altri paesi.        

Il ruolo dei paesi balcanici nella jihad siriana 

A partire dal 2014 il tema della criminalizzazione delle azioni di proselitismo volto all’arruolamento sta emergendo anche nei Balcani, dove in alcuni paesi sono stati introdotti o si sta discutendo di introdurre specifiche norme per rendere il reato di “reclutamento per combattere guerre all’estero” un crimine perseguibile. Nell’aprile 2014 il governo della Bosnia Erzegovina, il paese della regione più interessato dal flusso di arruolamenti jihadisti, ha approvato una legge “anti jihad” che proibisce ad ogni cittadino del paese di combattere guerre all’estero, sanzionando il reclutamento o la partenza con 10 anni di carcere. Serbia e Kosovo stanno discutendo bozze di legge che proibiscano la partecipazione di propri cittadini ad operazioni militari all’estero. Simili iniziative sono in corso in altri paesi, con una tendenza a cercare di configurare uno specifico reato “ideologico”, quello di “reclutamento wahabita”, che consenta di introdurre delle norme ad hoc nel codice penale che ne sanzionino le reti di proselitismo.

Sono diverse migliaia i combattenti stranieri che hanno partecipato alla guerra civile in Siria. L’istituto di ricerca inglese per lo studio della radicalizzazione (ICSR) azzarda addirittura un tetto massimo di 11.000 combattenti stranieri. Lo stesso istituto stima la regione dei Balcani come l’area di maggiore reclutamento dopo il Medio Oriente e l’Europa Occidentale, con un numero massimo di potenziali combattenti stimato attorno alle 500 unità. Un valore particolarmente elevato, se calcolato pro-capite, in funzione della scarsa popolosità dei paesi dell’area. Difficile stimare la correttezza di tali dati per la regione balcanica, sia per la scarsa affidabilità delle notizie che compaiono sui media, ma anche per l’estremo livello di strumentalizzazione etnico-nazionalista che viene fatto di ogni questione religiosa identitaria. Resta il fatto, tuttavia, che numerosi sono gli elementi che lasciano pensare ad un’esplosione del reclutamento jihadista nelle aree islamiche dei Balcani occidentali in particolare negli ultimi 12-24 mesi. Varie forze di sicurezza della regione confermano le stime del numero complessivo di jihadisti, provenienti dai 6 paesi dei Balcani coinvolti: Bosnia Erzegovina, Serbia, Macedonia, Albania, Kosovo, Montenegro. Se così fosse si tratterebbe di una porzione significativa sul totale dei combattenti stranieri. Più affidabile è ovviamente la stima del numero dei jihadisti balcanici caduti in Siria, per via della prassi consolidata dei principali siti web e social network islamisti in lingua serbo - croata o albanese di annunciare la notizia e particolari della vita e della morte dei “martiri” caduti, anche come strumento di propaganda/reclutamento diretto ad individui già radicalizzati. Un primo, necessariamente parziale, bilancio vede in non meno di 18 il numero dei cittadini dei paesi dei Balcani caduti combattendo in Siria che sono stati identificati nominalmente, con la Bosnia Erzegovina che conta il maggior numero di combattenti morti, seguita da Macedonia, Albania, Kosovo, Serbia e Montenegro. In ordine di tempo, l’ultimo caduto in Siria proveniente dall’ex Jugoslavia è stato Midhat Đono, cittadino bosniaco morto il 2 giugno 2014 nel Nord della Siria mentre era di ritorno dal fronte. Era originario di Hadžići, cittadina del cantone di Sarajevo. Con lui sale a sette il numero dei cittadini bosniaci morti in Siria. Nel marzo del 2014 era morto Ferid Tatarević di Zenica, già ex combattente nelle formazioni El Mudhaeidin nella guerra di Bosnia.  Precedentemente erano caduti  Derviš Halilović di Nemila, Senad Kobaš di Travnik, Emedin Velić di Sarajevo, Muaz Šabić e Mirza Ganić di Zenica. Ad essi si sommano i tre nominativi di cittadini serbi, Eldar Kundaković di Novi Pazar, Rasim Zeqiri e Muaz Ahmeti di Presevo ed il montenegrino Adis Salihović di Rožaja. Due caduti provengono dal Kosovo, Naman Damolli da Priština e Muhamet Koprova da Mitrovica. Almeno due sono i cittadini albanesi morti, Halit Maliqaj da Tirana e Ermal Xhelo da Valona mentre tre sono i caduti in Siria provenienti dalla Macedonia: due dalla capitale Skopje, Nimetullah Imeri e Sami Abdullahu, e Rasim Zeqiri da Gostivar. Questi numeri aumentano notevolmente se ad essi si sommano i cittadini di origine albanese, kosovara o bosniaca emigrati e naturalizzati (o comunque residenti) in altri paesi europei e da li partiti alla volta della Siria. Come Egzon Avdyli, cittadino norvegese di origine albanese, morto in Siria combattendo tra le file di ISIS.

Perché ora? Potenziali fattori di attivazione ed i collegamenti Siria – Balcani

Ma per quale motivo i primi casi significativi di jihadismo nei Balcani Occidentali sono iniziati a verificarsi a partire dal 2012/2013 e perché essi sono collegati alla guerra civile siriana? Ci vorranno anni per stimare gli effetti della guerra civile siriana sull’Islam balcanico e sui fenomeni di radicalizzazione che nel frattempo lo hanno interessato e che possono modificarne la struttura tradizionale. Quello che inizia ad apparire, è che il conflitto siriano ha svolto un ruolo non trascurabile di ri-attivazione e trasformazione dell’islam politico nella regione, in particolare di quella componente di jihadismo globale che non ha mai particolarmente attecchito nei paesi dell’area. Difatti, pur avendo sperimentato significativi fenomeni di immissione di combattenti stranieri jihadisti e qaedisti durante la guerra in Bosnia Erzegovina e numerosi tentativi di infiltrazione nel conflitto kosovaro, l’Islam balcanico ha mantenuto piuttosto stabile la propria natura tendenzialmente secolare, pur a fronte di  una attiva presenza di network salafiti. Nonostante l’eredità della dimensione religiosa del conflitto jugoslavo, l’Islam politico dei Balcani era rimasto sostanzialmente secolare, confinato in una dimensione etno-nazionalista e territoriale a cui l’elemento religioso veniva a piegarsi, e su di esso scarsa presa avevano avuto i tentativi esterni di trasformare il conflitto da nazionale e a globale.   

Il conflitto siriano appare però essersi inserito con forza nei processi sociali regionali, facendo breccia in un contesto ambientale cambiato, maggiormente predisposto e ricettivo agli impulsi esogeni rispetto a quello degli anni novanta. Tra i fattori che hanno contribuito a questa trasformazione bisogna annoverare la crescente disillusione sopravvenuta verso molti dei progetti statuali costruiti nati dalle ceneri della ex Jugoslavia – spesso naufragati o bloccati da fenomeni di malgoverno, corruzione, criminalità, povertà ed emigrazione. Una situazione ulteriormente aggravata dagli effetti prolungati della depressione economica, che da oltre sei anni si abbate costantemente sulla regione. Basti pensare al Kosovo che nonostante l’indipendenza e massicci aiuti internazionali resta il paese con i più bassi standard di vita europei, con metà della popolazione che vive di fatto sotto la soglia della povertà - mentre almeno il 10% è al di sotto di quella della estrema povertà – ed una disoccupazione che tra i giovani supera il 50%. Non è dunque sorprendente che l’area albanofona, come già segnalato in precedenti numeri dell’Osservatorio Strategico, è l’area dei Balcani che ha rappresentato la parte più ricettiva di questo lento processo di radicalizzazione islamista che apparentemente ha al centro le nuove generazioni nate negli anni novanta e che, per motivi anagrafici, non hanno partecipato direttamente alle guerre di dissoluzione della ex Jugoslavia. Come Blerim Heta, il primo attentatore suicida kosovaro che il 25 marzo del 2014 ha compiuto a Baghdad un attentato con decine di morti. Heta aveva compiuto 18 anni nel 2008, l’anno dell’indipendenza del Kosovo. Come nel suo caso, è verosimile che molta della radicalizzazione che ha interessato la nuova ondata dei combattenti provenienti dai Balcani in Siria sia poco collegata con l’eredità del conflitto jugoslavo, ma rappresenti piuttosto una radicalizzazione di “nuova generazione”, che interessa prevalentemente giovani abitanti della regione o seconde generazioni di famiglie emigrate negli anni novanta nei paesi Nord e Centro europei. Questo potrebbe essere il caso anche dell’ancora misteriosa vicenda delle due minorenni bosniache cittadine austriache (Samra Kesinovic e Sabina Selimovic) scomparse dopo aver sperimentato un rapido percorso di radicalizzazione in una moschea viennese.

I segnali di un rafforzamento e trasformazione dell’Islam politico nei Balcani, ben al di là degli standard autoctoni della regione, non sono solo deducibili dal peculiare fenomeno del jihadismo (che spesso riguarda singoli casi individuali basati su particolari tipologie psicologiche) ma potrebbero essere più profondi e riguardare strati più ampi della società. In Kosovo, ad esempio, un segnale dell’emersione di nuove forme di attivazione politica dell’Islam kosovaro può essere visto nel recente costituirsi del primo movimento politico apertamente islamista, registrato sotto il nome di Movimento Islamico Bashkohu (Levizja Islame “Bashkohu” - LISBA). Per il momento esso è attivo in manifestazioni di protesta contro il governo in nome di una maggiore presenza dell’Islam nella vita pubblica del paese e non ha preso parte a nessuna elezione politica. La sua esistenza rappresenta comunque una novità assoluta nel panorama politico del paese.

L’Islam balcanico sembra dunque essere entrato, o almeno essere lambito da, ad una nuova fase di attivazione politica, che sembra tendere a sostituire quella etno-nazionalista prevalsa negli anni novanta ed in parte nel decennio seguente. Essa potrebbe prendere le direzioni più diverse, producendo risposte di tipo populista islamico, sul modello AKP o di quello dei Fratelli Mussulmani, o di tipo salafita. Ma quello che oggi più preoccupa è che, qualunque sia la facciata mainstream del futuro Islam politico balcanico, tra le sue pieghe possano nascere forme di jihadismo paramilitare, non particolarmente controllabili e riconducibili ad una precisa matrice religiosa – ideologica, ma piuttosto un bacino di reclutamento per una specie di mercenarsimo jihadista globale. Ciò rappresenterebbe, in qualche modo, una sorpresa per coloro che sono abituati a considerare l’Islam balcanico prevalentemente immune o refrattario alle avventure del jihadismo globale, come dimostrato dal fatto che nulla o trascurabile è stata in passato la partecipazione di islamisti balcanici ai conflitti fuori dalle propria regione ed estranee alle proprie lotte di “liberazione nazionale”.  È ancora presto per sostenere che siamo di fronte alla – tanto temuta – tendenza di radicalizzazione globale all’interno dell’Islam dei Balcani occidentali, ma è quanto meno opportuno aprire una riflessione su quali possono essere stati i fattori che hanno ampliato le possibilità di presa dei movimenti jihadisti all’interno dell’Islam balcanico. Oltre alle dinamiche autoctone regionali, infatti, si sono creati una serie di nuovi contesti concentrici attorno alla regione dei Balcani che hanno modificato le dinamiche delle radicalizzazioni possibili, non confinandole solo ai residui dell’islamismo di guerra degli anni novanta, ma aumentando gli input esogeni sul tessuto socio religioso autoctono, aggiornandone le narrative.  

I tratti “balcanici” del conflitto siriano 

La guerra siriana ha ovviamente rappresentato un terreno diverso rispetto agli altri conflitti jihadisti in Nord Africa o in Medio Oriente. La Siria, innanzi tutto, confina fisicamente con la regione dell’Europa Sud Orientale, e con essa condivide alcuni tratti comuni, legati al sistema geopolitico del Mediterraneo Orientale, che comprende almeno tre paesi dell’Europa Sud Orientale, Grecia, Turchia e Cipro. È chiaro che il sistema geopolitico dell’Europa Sud Orientale e quello Medio Orientale hanno un punto di sovrapposizione di interessi/problematiche proprio nell’area del Mediterraneo orientale interessata dal conflitto siriano. Basti solo pensare alle questioni relative all’esplorazione, estrazione e trasporto di idrocarburi identificati nel Mediterraneo orientale e che coinvolgono gli interessi, la sicurezza energetica ed i confini marittimi di Turchia, Grecia, Cipro, Siria, Israele. La presenza di comunità greco ortodosse in Siria ed il loro supporto al regime di Assad, così come il coinvolgimento russo nella politica interna ed estera siriana sono ulteriori elementi di possibile collegamento del quadrante siriano con quello dell’Europa Sud Orientale. Ulteriori collegamenti tra regione balcanica e conflitto siriano sono emersi nel settore delle forniture di armi leggere e di artiglieria prodotte nei paesi della ex Jugoslavia ed inviate in Siria a beneficio di alcune forze anti governative. Tali forniture hanno avuto un ruolo non trascurabile nell’aumentare le capacità militari di gruppi secolari o nazionalisti del fronte anti-governativo, sia in funzione anti-Assad che in funzione anti ISIS. Lo scorso anno, il New York Times aveva identificato le forniture come provenienti dalla Croazia e finanziate dall’Arabia Saudita. Il potenziale coinvolgimento della Croazia, qualora fosse corretta la notizia circolata sulla stampa anglosassone, sarebbe con probabilità da mettere in collegamento con le ricadute che un rafforzamento delle componenti nazionaliste dell’opposizione siriana potranno indirettamente produrre sui Balcani e sulla Bosnia Erzegovina, in particolare. 

Ma al di là di questi collegamenti identificati tra Balcani, Europa Sud Orientale e Turchia, ben altri, tuttavia, appaiono essere stati i fattori “ponte” determinanti nel collegare fisicamente l’Europa Sud Orientale e balcanica con la Siria.

Il ruolo della Turchia

L’espansione politica, economica e culturale della Turchia nei Balcani avvenuta negli scorsi anni ha ovviamente contribuito a costruire legami ed interessi comuni tra i paesi islamici della regione con Ankara, e con la più grande regione neo-ottomana. La mobilità e l’interscambio che i paesi dei Balcani occidentali e quelli Medio orientali conoscono verso la Turchia ha fatto di quest’ultima un’importante area d’interscambio culturale ed un hub di condivisione di relazioni ed opinioni in cui travasano i problemi globali sperimentati dalle società islamiche. È interessante leggere la Turchia, anche come piattaforma di melting-pot infra-musulmano, luogo fisico in cui si compenetrano tre diversi sottosistemi demografici dell’islam politico: quello nord-africano, quello medio-orientale e quello anatolico-balcanico. Ciò è possibile non solo per l’irradiazione del soft-power turco da Ankara verso il proprio estero vicino, ma anche per l’ampia gamma di flussi demografici diretti verso la Turchia e provenienti da un’ampissima fascia di paesi mussulmani mediterranei. In virtù di una liberale politica dei visti verso tutte le regioni contermini (eredità del periodo della politica della profondità strategica e del zero problemi con i vicini) la Turchia è, oramai, il potenziale luogo fisico d’incontro per un’ampia fascia di cittadini di religione mussulmana, che possono recarvisi senza richiedere visto praticamente da tutto l’arco euro-mediterraneo. Regime di circolazione esente da visti esiste per esempio da Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Libano, Giordania, Siria, Kosovo, Albania, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, oltre che da molti paesi europei, inclusi Italia, Francia e Germania. Anche grazie a questo ruolo fisico di ponte, la Turchia ha contribuito ad avvicinare culturalmente, nello scorso decennio, un’ampia area mediorientale con le opinioni pubbliche dei paesi mussulmani dei Balcani Occidentali creando, via Ankara, un vaso comunicante tra l’Islam balcanico e quello Medio orientale. Alla stregua di social media ed internet, tale influenza culturale ha avuto un ruolo sulla percezione del conflitto siriano in molti paesi della regione dell’Europa Sud Orientale. Unita con il sostegno logistico ed operativo dato da Ankara all’opposizione militare al regime di Assad, ha favorito l’apertura di fatto, dei canali per l’avvio di flussi di combattenti dalle comunità islamiche dei Balcani ai campi di battaglia siriani. Voluto o meno, era comunque inevitabile che la Turchia per posizione geografica, ruolo politico, coinvolgimento logistico-militare, obblighi umanitari, predisposizione culturale-ideologica, implicazioni religiose andasse a svolgere il ruolo chiave di hub dei flussi da e per la Siria dei jihadisti europei e balcanici. Un ruolo che ha una sofisticata dimensione politico-strategica, che non va interpretato in un solo senso, quello di facilitatore dei flussi, ma anche di filtro e barriera. È almeno di 4.000 unità il numero di cittadini europei sospetti di radicalismo islamico a cui la Turchia ha rifiutato l’ingresso nel proprio territorio. Ovviamente, non sempre le aspettative dei paesi europei sono soddisfatte dalla funzione “filtro” che essi si aspettano svolga la Turchia. Più che una funzione di filtro degli ingressi in Turchia essi vorrebbero che Ankara desse priorità al contrasto del rientro in Europea dei combattenti jihadisti.

Il fattore USA

Resta un dato di fatto che i governi che hanno sperimentato il fenomeno della radicalizzazione jihadista di propri cittadini verso il conflitto siriano (Bosnia Erzegovina, Albania, Kosovo, Montenegro, Macedonia[1]) sono tutti governi la cui politica estera può essere definita come filo americana o comunque che mantengono ottimi rapporti con gli Stati Uniti d’America e spesso fanno parte della rete degli interessi regionali di Washington. Nella maggioranza dei casi, anche le opinioni pubbliche dei paesi coinvolti sono tradizionalmente filo-americane e condividono la generale interpretazione globale delle relazioni internazionali prevalente sui media occidentali. Da questo punto di vista vi possono essere potenzialmente due spiegazioni di questa apparente coincidenza tra postura politica internazionale dei paesi e fenomeno del jihadismo balcanico verso la Siria. La prima, può essere interpretata come l’onda lunga dell’originale posizione pro-interventismo da parte del governo degli Stati Uniti d’America che potrebbe avere, anche in maniera indiretta, indotto ad una scarsa vigilanza dei governi locali sui flussi di combattenti verso la Siria, trattandosi di un teatro di potenziale impegno militare americano. La seconda spiegazione potrebbe essere invece radicalmente opposta. In paesi islamici politicamente allineati agli Stati Uniti d’America possono sorgere fenomeni di opposizione al governo locale nel nome di una critica vuoi religiosa, vuoi politica al sistema di governo del paese e alle sue alleanze internazionali. Posizioni che spesso possono prendere la via della jihad all’estero come mossa tattica in preparazione di una jihad interna. Sono solo supposizioni teoriche che si possono fare per deduzione rispetto a quanto accaduto ad altri paesi su fenomeni analoghi. Certo è che il link tra jihadismo balcanico in Siria e filo-americanismo / anti-americanismo va in qualche modo tenuto sotto osservazione per le conseguenze che esse possono produrre nel lungo periodo.        

Il fattore profughi e rifugiati

Un ulteriore fattore di collegamento siriano – balcanico è dato dai flussi di rifugiati provenienti dalla Siria e accolti in Turchia. Oltre 600.000 quelli ufficiali, a cui si sommano i flussi clandestini. Diverse migliaia di essi cercano di abbandonare la Turchia e di proseguire il proprio viaggio seguendo la rotta balcanica verso Germania o Svezia, i paesi europei ritenuti più accoglienti e vantaggiosi. Molti di essi terminano il proprio viaggio in vari punti della regione, ed in particolare alle due porte di ingresso dell’Unione Europea, Grecia e Bulgaria. I due paesi UE confinanti con la Turchia hanno difatti l’obbligo di gestire le procedure di richieste di asilo. Sono oramai decine di migliaia i rifugiati siriani nei centri di emergenza bulgari e greci e rappresentano un ulteriore fattore di collegamento tra Europa Sud Orientale e Siria e, se vogliamo, tra l’Islam balcanico e quello medio-orientale. Per arginare tali flussi, sia la Grecia che la Bulgaria stanno costruendo tratti di muri o di altro tipo di barriere lungo le parti meno controllabili del confine con la Turchia.       

L’Islam balcanico, nell’Islam europeo, nell’Islam medio-orientale….

È opinione di chi scrive che uno dei più importanti canali di coinvolgimento e di esposizione dell’Islam balcanico alle questioni politiche e militari del conflitto siriano ha avuto luogo in questi anni al di fuori della regione dell’Europa Sud Orientale, nelle capitali europee della diaspora balcanica come Vienna, Monaco, Bruxelles, Londra, Oslo, Milano. È nel cuore del multiculturalismo europeo che l’Islam balcanico ha incontrato altre tipologie di Islam, impattando con forme e gradi diversi del pressoché infinto prisma del radicalismo, esponendosi alle narrative globali della jihad. Difatti, è nelle capitali multiculturali e “multi-islamiche” della UE, più che negli stessi Balcani che si costituisce il miglior humus per la radicalizzazione di numerosi cittadini o figli di cittadini provenienti dall’area dell’ex Jugoslavia e dell’Albania. Guardando le stime dei numeri delle partenze dei jihadisti verso la Siria emerge chiaramente come sono stati i paesi dell’Europa centro-settentrionale ad aver fatto la parte del leone nei reclutamenti, producendo il maggior numero di combattenti stranieri; ebbene, in molti di questi paesi particolarmente forte è stata la diaspora dai paesi dei Balcani nel corso degli anni novanta e non è difficile immaginare che le seconde generazioni di emigrati di vari paesi mussulmani possono aver trovato un minimo comun denominatore di radicalizzaizone/jihadismo nelle città metropolitane dell’Unione europea. La radicalizzazione islamista in un ambiente multiculturale offre maggiori possibilità di attecchire all’islamismo globale di quanto analoghi processi che si svolgono all’interno di monocolture nazionali. Dalle città balcaniche all’Europa metropolitana, non è solo l’ambiente culturale che cambia, ma l’intero contesto socio economico. Le città europee hanno tessuti sociali differenti rispetto a quelli domestici, ed i percorsi di radicalizzazione avvengono in un contesto profondamente diverso, non più in un tipico ambiente post-conflict (economicamente depresso, mal governato e caratterizzato da ferite aperte di conflitti etnico-religiosi) ma piuttosto all’interno di ricche città europee (con economie forti, con un’offerta di servizi pubblici di qualità ed in presenza di sistemi di welfare avanzati e generosi). In molte di queste città, ad esempio a Vienna, sono presenti importanti centri di radicalizzazione ed indottrinamento, che mantengono forti legami, anche grazie ai nuovi media e alla digitalizzazione della comunicazione di massa, con i paesi di origine e con altri gruppi internazionali che praticano l’Islamismo radicale. Al punto che il governo austriaco minaccia di mettere in atto azioni che comportino la perdita della cittadinanza austriaca per coloro che si recano a combattere in paesi stranieri. Nei curricula di diversi jihadisti “balcanici” caduti in Siria, come nel caso dello stesso Heta, nato in Germania nel 1990, vi è la specificità della “radicalizzazione europea” dell’Islam delle seconde generazioni della diaspora, completato da un percorso di ritorno al proprio paese di origine (a volte per scelta, a volte per necessità economica o per espulsione). Un fenomeno, quello dei ritorni degli emigrati dalla regione balcanica che si è particolarmente accentuato negli ultimi anni, sia a causa delle difficoltà prodotte dalla crisi economica, sia per l’introduzione di politiche migratorie più restrittive e selettive (vedi sotto). In uno degli ultimi video propagandistici prodotti nel maggio 2014 da ISIS (al-Furqan Media, Clanging of the swords, Part 4) una scena viene dedicata ad un gruppo di combattenti jihadisti kosovari ed albanesi che rinnegano i loro passaporti è giurano fedeltà al nuovo stato dell’Iraq e al-Sham.

Il fattore delle espulsioni ed il circuito emigrazione/radicalizzazione/rientro

            Vi sono ragionevoli indizi logici e fattuali per ritenere che per una parte importante dei jihadisti provenienti dai Balcani occidentali il percorso che conduce dai Balcani alla Siria è più circolare che lineare, avendo luogo con il coinvolgimento di più sistemi paese, ipoteticamente seguendo un percorso di questo tipo: emigrazione anni novanta dai Balcani in Europa + fallimento dell’inclusione sociale e lavorativa negli anni duemila e processo di inizio percorso di radicalizzazione + rientro/espulsione nei paesi d’origine e intercettazione da parte dei network di reclutamento jihadista balcanico con completamento radicalizzazione ed invio in Siria via Turchia. Se dovesse confermarsi l’esistenza di tale percorso, ricostruito sulla base di un numero ancora basso di “curriculum” personali, la questione del rientro si porrebbe in maniera più complessa per via della frammentarietà e intersezione dei paesi coinvolti nella pipeline della radicalizzazione (che in teoria, verrebbe a comprendere l’intero spazio Schengen).

Il Kosovo rappresenta un interessante case study per questa teoria. Il 2008 è stato l’anno dell’indipendenza del paese, con l’agognata conquista della sovranità e della statualità per l’ex provincia jugoslava. Che quasi immediatamente ha dovuto fare i conti con il fatto che esistono due importanti corollari della sovranità statuale: uno, esterno, è la responsabilità nei confronti di altri stati mentre l’altro, interno, è la responsabilità nella fornitura di servizi di cittadinanza alla propria popolazione. Il Kosovo negli anni successivi alla propria indipedenza ha dovuto, da un lato, assumere molti obblighi internazionali mentre, dall’altro, ha visto aumentare il malcontento interno della propria popolazione che non visto, all’ottenimento di un proprio Stato indipendente costruito sulla propria nazionalità, fare seguito un miglioramento delle condizioni di vita interne; condizioni che, anzi, sono in qualche modo peggiorate con la contrazione della presenza internazionale, la riduzione delle rimesse e l’introduzione di maggiori ostacoli all’emigrazione. Prima dell’indipendenza si stimava che fossero oltre 100.000 i kosovari che vivevano più o meno illegalmente o con status temporanei in Europa, di cui la metà nella sola Germania e quote importanti in Austria, Svizzera e Belgio. Subito dopo l’indipendenza, il Kosovo ha dovuto firmare una serie di accordi per la riammissione dei propri cittadini espulsi dai paesi europei che li ospitavano. Solo nel 2009 quasi 5.000 persone sono state riammesse, espulse da vari paesi europei, molti dei quali con procedimenti di allontanamento forzati collettivi. Simili dinamiche sono avvenute anche per altri paesi della regione. Un migliore studio di questi circuiti della radicalizzazione sarebbe utile per costruire un modello di radicalizzazione jihadista nei Balcani occidentali e verificare quali sono le sue connessioni con l’Europa occidentale. Andrebbe anche meglio studiata la questione degli “stipendi” dei jihadisti, che alcune Ong verserebbero ai combattenti che dai Balcani operano in Siria, quantomeno per lo studio degli aspetti motivazionali, e per capire quanto alto è il peso degli aspetti ideologici/religiosi rispetto a quelli materiali.       

Conclusioni

Semplificando e riassumendo, numerosi appaiono essere i vettori che hanno aumentato l’esposizione dell’Islam balcanico al conflitto siriano e che hanno contribuito a produrre fenomeni inattesi – tutt’ora piccoli ma apparentemente in rapida crescita – di ingresso dei Balcani nei processi globali di radicalizzazione e di jihadismo anche al di fuori della stessa penisola balcanica:

a. Una dimensione trasformativa interna, prodotta dal processo di “evoluzione competitiva” dell’Islam autoctono, attraverso la segmentazione dell’offerta religiosa, il radicamento e la proliferazione di varie “scuole” e dottrine esogene, anche in conflitto tra loro per il controllo delle moschee e delle risorse economiche ed in conflitto con lo Stato per la perimetrazione della sfera religiosa nella cosa pubblica;  

b. Una dimensione “settentrionale” centro-europea, che riguarda le enormi comunità della diaspora balcanica, le cui seconde generazioni sono ormai collegate all’Islam continentale europeo globale, frutto di innesti e sovrapposizioni culturali di diversa natura e vero luogo fisico d’incontro tra Islam dei Balcani, l’Islam arabo ed il più ampio mondo mussulmano; E’ in Europa, ormai divenuta uno dei principali motori dell’Islam politico globale, che avviene una parte non trascurabile dell’islamizzazione delle comunità  balcaniche e che include anche il rischio di radicalismo religioso;

c. Una dimensione geopolitica “meridionale”, legata alla crescente influenza turca esercitata sui Balcani Occidentali e sui paesi in ritardo nel processo di adesione all’Unione Europea, per i quali Ankara diviene un polo d’attrazione politico - culturale alternativo, che necessariamente espone i paesi balcanici al processo di neo-ottomanizzazione e medio-orientalizzazione della politica estera di Ankara, sperimentata negli ultimi anni. 

Il venire a maturazione di questi differenti processi nell’ultimo decennio, può in parte spiegare la maggiore rilevanza che appare aver assunto il conflitto siriano nelle dinamiche dell’Islam politico dei Balcani rispetto ad altri conflitti a carattere jihadista globale avvenuti nel mondo mussulmano negli scorsi anni e tutt’ora in corso (basti pensare alla guerra civile in Iraq, tutt’ora in corso). La legittimazione della jihad siriana agli occhi di una parte dell’Islam balcanico è un tema nuovo che dovrà essere profondamente studiato per comprendere meglio l’evoluzione dell’Islam balcanico.

Ad ogni modo, quello che può essere già considerato un dato evidente è che anche per l’Islam di una regione apparentemente periferica come i Balcani, l’isolamento dal mondo globale è qualcosa di molto difficile da mantenere. Sarà forse necessario uscire dagli stereotipi interpretativi delle peculiarità storiche dell’Islam della regione, in quanto esso tenderà ad essere sempre meno un Islam isolato, chiuso nei suoi conflitti storici ed etno-territoriali nella regione. La dimensione religiosa dell’Islam balcanico sarà maggiormente sottoposta a sollecitazioni per sganciarsi dalle dimensioni politiche strettamente regionali, ove gli spazi di crescita sono angusti, mentre ampi sono quelli che possono essere costruiti nelle relazioni transfrontaliere e transregionali, di cui l’Islam balcanico è crocevia.

Potremmo assistere sempre più ad una tensione tra un Islam autoctono balcanico che punta a mantenere la propria subalternità all’identità nazionale (famoso il detto del poeta albanese – e governatore del Libano ottomano – Pashko Vasa secondo cui “la religione degli albanesi è l’albanismo”) ed un Islam politico di estrazione balcanica ma di visione politica globale.

L’Islam balcanico, che vede l’Europa allontanarsi sempre più, appare trovarsi all’interno di un vacuum di flussi geopolitici, posto a metà strada tra l’avanzata dell’Islamismo politico e radicale nel Medio Oriente e Nord Africa e l’imprevedibile laboratorio dell’Islam europeo della diaspora e dell’emigrazione. Quello che appare certo è che sempre maggiore sarà l’esposizione della regione a varie forme e tipologie di Islam politico globale, commistioni rese inevitabili dai fenomeni migratori e dalla connettività globale. L’impatto trasformativo di queste commistioni sulle varie comunità islamiche della regione resta tutto da scoprire. Certamente, l’elevato numero di caduti di cittadini dell’area dei Balcani Occidentali nelle file delle formazioni jihadiste siriane rappresenta un forte indice che siamo di fronte ad una diversa e per certi versi inaspettata evoluzione dell’Islam balcanico. Quanto essa possa essere rappresentativa di cambiamenti più diffusi e profondi dovrebbe essere oggetto di specifica ed attenta analisi. Da questo punto di vista, la partita dei rientri costituirà un significativo indicatore.  
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[1] Per quanto riguarda la Serbia, che ovviamente mantiene un rapporto meno stretto e più equidistante con gli USA rispetto agli altri paesi ex jugoslavi, va segnalato che il proselitismo per il reclutamento di combattenti in Siria ha riguardato esclusivamente la regione di confine del Sangiaccato in cui vive una minoranza religiosa mussulmana. 

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