I vertici balcanici dell'Europa a la situazione politica e di sicurezza della regione
Nel corso del 2016 i cosiddetti Balcani Occidentali (Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Albania), e più in generale la regione geopolitica dei Balcani[1], sono ritornati nuovamente al centro dell’agenda politica e di sicurezza dei paesi dell’Unione Europea. A essi è stato dedicato l’importante vertice di Parigi di fine luglio, promosso dai tre membri europei più interessati dalle questioni di sicurezza regionale, Francia, Germania e Italia. Il vertice faceva seguito alla rinnovata azione politica avviata da Berlino nel 2014, paese che negli ultimi anni ha spostato sempre più il baricentro della propria politica estera verso la regione balcanica. Questa regione vista nel contesto più ampio dell’Europa Sud Orientale, rappresenta ormai per Berlino la principale area di convergenza di numerose priorità della propria azione esterna, e in particolare qui si vanno ad incrociare numerosi fattori come il rapporto con Mosca, il rapporto con Ankara, il consolidamento dell’Unione Europea attraverso il suo fianco più debole (Grecia, Romania, Bulgaria, Croazia).
Tuttavia, dal vertice di Berlino (2014) al vertice di Parigi sui Balcani (2016), la situazione complessiva di sicurezza si è complessivamente deteriorata e numerosi sono i fattori che hanno portato a una rinnovata attenzione strategica alle dinamiche della regione dell’Europa Sud Orientale e del suo cuore più instabile, i Balcani Occidentali.
Tra i fattori che hanno contribuito al deterioramento del quadro complessivo della situazione della regione possiamo citare:
Il referendum britannico sull’abbandono dell’Unione Europea che ha gettato un profondo sconforto in molte cancellerie della regione. A oltre venti anni dall’avvio della transizione dal comunismo e dall’apertura degli orizzonti europei – che in quasi tutti i paesi della regione è divenuta la nuova ideologia di legittimazione di classi politiche poco credibili – vedere aprirsi il rischio che l’Unione perda un pezzo così importante dei suoi paesi membri, depotenziando notevolmente il senso geopolitico della propria esistenza, ha rappresentato un profondo shock politico, che tra l’altro offre nei Balcani ulteriori argomentazioni ai partiti e movimenti della società civile euro-scettici. Il rischio della cosiddetta Brexit, che fa seguito solo di qualche anno all’altro grande shock politico regionale, il collasso economico, politico e sociale della Grecia, il primo paese dei Balcani divenuto membro dell’Unione Europea, porta in prospettiva anche un aumento della complessità geopolitica esterna alla regione, visto che il Regno Unito è da sempre stato un attore molto assertivo nelle vicende politico – strategiche regionali. Un’eventuale uscita dell’UK dalla UE aumenterebbe, a tal proposito, il gap tra paesi dell’allargamento atlantico e quelli dell’allargamento europeo nei Balcani, aggiungendo un’ulteriore divisione geopolitica alle già molteplici faglie esistenti nella regione. Ma soprattutto, gli effetti negativi del referendum britannico si riscontrano nello spostamento delle risorse e dell’azione politica europea dall’agenda esterna – di cui i Balcani Occidentali rappresentavano il livello più importante – all’agenda interna, quella del salvataggio del progetto stesso della costruzione politico – economica dell’Unione. Alla luce del fatto che molte delle critiche provenienti dai paesi della vecchia Europa verso l’UE sono rivolte alla generosa politica di allargamento dai bassi standard, è chiaro che molti si attendono, come effetto della Brexit, un inasprimento del cammino verso la UE per i paesi della regione. In questo contesto, qualcuno teme che i Balcani tornino a ricoprire, anche agli occhi di Bruxelles, un ruolo tradizionale ma scomodo, quello dei trouble-makers, ovverosia quello della regione interessante per via dei suoi problemi irrisolti di sicurezza, collegati al rischio che potenze esterne che perseguono un’agenda anti europea possono sfruttarle per minare la sicurezza stessa del continente.
Un secondo fattore di grave insicurezza dei Balcani è rappresentato dalla perdurante crisi socio – economica che attraversa pressoché tutti i paesi della regione. Particolarmente grave – e delegittimante per il soft power europeo – è che la continuità della crisi economica, sociale e occupazionale della regione sia proseguita, anzi si sia aggravata, in parallelo all’approfondirsi dei processi di allargamento verso l’Unione Europea e nonostante gli elevati livelli d’impegno finanziario e di assistenza tecnica che l’Unione e le istituzioni finanziarie internazionali hanno dedicato ai paesi dell’allargamento. Anche i paesi che hanno raggiunto il sospirato accesso nell’Unione – come Croazia, Slovenia, Bulgaria, Romania – hanno ricevuto sicuramente dei vantaggi in termini politici e di macro – sicurezza (in parte già raggiunti con l’adesione alla NATO), ma non appaiono aver ricevuto un particolare stimolo economico dall’adesione, né un sostanziale miglioramento degli standard socio – economici interni. Nello scorso decennio i paesi dei Balcani hanno assistito a un progressivo rivelarsi della fallacia dell’assunto del potere trasformativo dell’adesione all’Unione Europea, il principio secondo cui i problemi politici e di sicurezza della regione si sarebbero risolti attraverso la loro marginalizzazione che sarebbe avvenuta in seguito all’aumento degli standard economici e sociali conseguibili attraverso l’adesione all’Unione Europea e comunque dal processo di convergenza verso i suoi standard. Come sostenuto da quest’Osservatorio in anni non sospetti, l’aver basato la risoluzione dei problemi di sicurezza della regione su una visione troppo soft, e comunque caratterizzata da una visione ideologica e sostanzialmente velleitaria delle capacità taumaturgiche della membership europea, ha rappresentato una delle principali carenze strategiche dell’azione dell’Unione Europea nella regione. Il fatto che, oltre ai trasferimenti economici, uno dei principali – e più efficaci – strumenti di condizionamento delle azioni dei paesi della regione sia stato e continui a essere il meccanismo dell’abolizione dei visti, ossia in ultima analisi nella possibilità di abbandonare la regione, rappresenta una chiara evidenza dell’insostenibilità socio-economica delle condizioni di vita nella regione per una gran parte delle classi sociali.
Di più difficile interpretazione è invece il significato dell’evoluzione dei rapporti di Mosca con i paesi dei Balcani e il suo significato per l’Unione Europea. Sicuramente il conflitto con l’Ucraina ha portato a un irrigidimento dei rapporti tra la Russia e i paesi dell’Europa Sud Orientale, anche per via dell’adesione, di membri UE di questa regione, ai meccanismi delle sanzioni. La principale conseguenza strategica di lungo periodo è stata tuttavia quella di aver causato l’impossibilità di proseguire il progetto del gasdotto South-Stream, la cui realizzazione oggi è ulteriormente resa problematica dallo sdoganamento dell’Iran che, rende questo paese un potenziale concorrente per le forniture di gas da Sud Est verso l’Europa così come dal contemporaneo sviluppo dei giacimenti nel Mediterraneo Orientale. Il fatto che sia saltato South Stream, il secondo progetto di nuovo gasdotto verso l’Europa, con cui Mosca avrebbe fortemente condizionato la sicurezza energetica dei paesi dell’Europa Sud Orientale, ha però creato il paradosso di rendere la Russia meno sensibile a un deterioramento delle condizioni di sicurezza della regione. Se il gasdotto fosse andato avanti e gli investimenti russi avessero attraversato i paesi dei Balcani, dalla Bulgaria fino all’Austria, il comportamento geopolitico russo avrebbe dovuto assecondare le necessità di ritorno degli investimenti e la conseguente azione di politica estera di Mosca sarebbe stata indirizzata a supportare la stabilità regionale e contribuire a eliminare le cause di conflitto ancora presenti nella regione. La mancata realizzazione del gasdotto non ha tuttavia modificato la dipendenza dei paesi della regione dagli approvvigionamenti di gas dalla Russia, ma ha privato i paesi attraversati delle royalties che sarebbero derivate dal transito del gas ed ha reso Mosca più indifferente verso la stabilità e instabilità regionale. Inoltre, nel lungo periodo, il futuro energetico della regione dell’Europa Sud Orientale appare essere destinato a gravitare verso Berlino, che – avendo realizzato in tempi record North Stream nel baltico – si appresta al suo raddoppio, con l’obiettivo eventuale di fornire il gas russo all’Europa Sud Orientale attraverso l’Austria. Se questo scenario dovesse svilupparsi ulteriormente, la stabilità della regione sarebbe sempre più caratterizzata dal tenore dei rapporti tra Mosca e Berlino e ed essere influenzata in negativo alle eventuali crisi che possono verificarsi sul bilaterale di questo rapporto estremamente complesso e articolato.
C’è anche da dire che lo scoppio delle guerre in Ucraina e in Siria ha in un certo senso privato i Balcani di quel ruolo tradizionale di polveriera che essi hanno spesso rivestito nella Storia, in cui conflagravano in conflitti gli attriti geopolitici tra le potenze europee ed extra – europee. Attorno ai Balcani vi è ora un’ampia fascia di conflitti in cui vanno a stemperarsi le frizioni geopolitiche tra potenze globali e regionali nella zona dell’euro-asia/mediterraneo orientale, “svalutando” la rilevanza strategica dei conflitti etnici e territoriali di cui i Balcani tuttora abbondano.
Tentando di essere più chiari possibili su questo punto delicato, si può affermare che la possibilità dello scoppio di un conflitto simile a quello della dissoluzione della Jugoslavia degli anni novanta è estremamente improbabile, anche se una contemporanea estensione del conflitto ucraino e di quello siriano non potrebbe che finire per allargarsi ai Balcani. Quest’ultima eventualità appare tuttavia essere remota in quanto non è per il momento nell’interesse di Mosca che essi si saldino; e né potrebbe Mosca sostenere lo sforzo politico – militare su entrambi gli scenari. Tuttavia, come esiste un soft power, esiste anche una via soft alla conflittualità e all’instabilità a bassa intensità e questa vede i Balcani primeggiare come area particolarmente vocata per via del mix di crisi economica, debole statualità, alta influenza di criminalità organizzata e corruzione, prossimità alle aree di conflitto, prosperità nei traffici di armi, presenza di un Islam radicale sempre più forte, mancata riconciliazione tra nazionalità ed etnie e permanente presenza di forze che ambiscono alla revisione dei confini e nutrono aspirazioni secessioniste.
La debolezza e l’inefficacia della risposta europea, e la stessa crisi del modello politico – economico d’integrazione e allargamento, contribuisce a delegittimare i partiti politici che hanno fatto una chiara scelta europeista e rafforza invece i partiti euro-scettici o anti europeisti, che spesso coincidono con le forze più nazionaliste dello scacchiere politico. Parallelamente, sia a destra sia a sinistra, si assiste a una richiesta da parte delle opinioni pubbliche di leader forti e decisionisti, non necessariamente nazionalisti ma sicuramente dirigisti, che promettono una veloce via allo sviluppo economico e sociale e una maggiore tutela di quelli che vengono percepiti come gli interessi nazionali o i valori identitari ed etnici di una parte della popolazione. Ciò spiega la forza perdurante dei nazionalismi o dei partiti che possono essere definiti non riconducibili agli standard liberal-democratici europei, una tendenza che è tutt’altro una prerogativa solo dei Balcani, ma che nei Balcani può sfuggire facilmente di controllo, anche per la debolezza delle istituzioni statali e per la spesso superficiale adesione ai principi democratici abbracciati dopo la caduta del comunismo.
Per il momento ciò si manifesta in una lotta politica condotta spesso al di fuori degli standard democratici ed europei, l’alto livello di consultazioni elettorali e di gravi crisi politiche interne e con la perdurante tendenza a oscillare tra ritorno a modelli autoritari decisionisti tipici del periodo del comunismo e l’immobilismo e il caos di una transizione incompiuta. Occasionalmente ciò prende la forma di opinioni pubbliche facilmente infiammabili su temi territoriali e dei confini, anche quando marginale è l’effettiva rilevanza strategica. Tra le questioni territoriali che possono originare crisi latenti nella regione vi sono la questione della definizione del confine tra Montenegro e Kosovo, l’interminabile questione del contenzioso del nome tra Macedonia e Grecia, la definizione del confine marittimo tra Albania e Grecia, la questione della penisola di Prevlaka tra Montenegro e Croazia (due paesi NATO che hanno temporaneamente risolto la questione per la quale tuttavia non possono escludersi azioni presso i Tribunali internazionali), e quello tra Slovenia e Croazia per la baia di Pirano (quest’ultimo già istradato verso una decisione di un tribunale ad hoc di arbitrato, iter che però ha incontrato vari problemi e scandali). Altre minime questioni territoriali che tornano solitamente in concomitanza di scadenze elettorali esistono tra Bosnia e Croazia e tra Montenegro e Serbia, mentre la definizione del confine tra Macedonia e Kosovo può essere annoverata come un’esperienza di collaborazione positiva e rapida tra i due paesi. Caso a sé fa ovviamente la questione tra Serbia e Kosovo, dal momento che qui non si tratta di una semplice disputa territoriale ma del mancato riconoscimento dell’indipendenza unilaterale di Pristina da Belgrado, indipendenza non riconosciuta non solo da Belgrado ma da numerosi paesi del mondo e da 5 paesi della stessa Unione Europea. Il contenzioso è stato tuttavia “sanitarizzato” dall’azione di politica estera dell’UE, forse il più importante successo di politica estera dell’Unione Europea, che è riuscita a istradare i due governi verso un percorso di dialogo e di accordi che, pur con forti resistenze da entrambe le parti, sta dando alcuni risultati non trascurabili.
I Balcani, perduti in questo limbo di apparente marginalità nella hard security globale, continuano a rivestire un ruolo importante per la soft security regionale e per l’homeland security dell’Unione Europea, come area di transito tra i focolai delle crisi extra europee e l’Unione Europea stessa. Apparentemente il maggiore “ruolo” negativo dei Balcani per la sicurezza europea non è tanto rappresentato dal pericolo di “innesco” di un nuovo conflitto, quanto dal ruolo negativo di transito che i Balcani stanno ricoprendo da almeno tre anni a questa parte in concomitanza con l’aggravarsi del conflitto siriano. Questo ruolo si manifesta in due dimensioni: il ruolo di paesi facilitatori dei transiti di quantità ingestibili di migranti irregolari e richiedenti asilo e quello di hub di jihadisti radicali (da e per l’Europa). In questo ruolo le organizzazioni criminali dei Balcani hanno trovato un’alleanza di fatto con i profughi e i migranti, le prime fornendo dei “servizi” non solo di trasporto ma anche di “corruzione” delle autorità, i secondi trovando la via più rapida e meno pericolosa per accedere allo spazio di libera circolazione dell’Unione Europea. La crisi dei migranti, pur nella sua predominante dimensione umanitaria, racchiude in sé anche numerosi elementi di criticità per la sicurezza e la stabilità europea, la più importante delle quali è rappresentata dal fatto che la creazione di un “autostrada per il traffico di essere umani” senza documenti verificabili o con documenti falsi (il ministero degli interni tedesco ha stimato nel 2015 che un terzo di documenti d’identità siriani dei richiedenti asilo si è rivelato falso) può essere sfruttata per un accesso in incognito nello spazio di libera circolazione europea per gruppi criminali, individui socialmente pericolosi fino agli stessi foreign fighters di ritorno alla ricerca di un sistema incognito per penetrare in Europa. In questo la rotta balcanica offre il miglior rapporto qualità – prezzo – rischio e, com’è stato già più volte provato, essa è stata utilizzata per facilitare l’accesso di terroristi verso l’Unione Europea. Non è invece ancora esattamente stimabile l’effetto che l’ondata di profughi di religione islamica potrà avere sull’Islam balcanico, che negli ultimi anni si è dimostrato essere molto più sensibile ai richiami e alle narrative jihadiste provenienti dal medio-oriente di quanto comunemente si ritenesse. Il numero dei foreign fighters per abitante partiti dai paesi mussulmani dei Balcani per andare a combattere in Siria è in assoluto uno dei più alti d’Europa e dimostra sia una crescente radicalizzazione dell’Islam balcanico – a cui non è stato estraneo il ruolo giocato dalla Turchia come paese facilitatore dei transiti, almeno fino al 2016 – sia rappresenta un ulteriore conferma delle non positive condizioni socio economiche di tali territori.
Questione a parte è rivestita invece dall’ennesima situazione di criticità politica in cui si trova la Bosnia Erzegovina nell’autunno del 2016, ventuno anni dalla fine degli accordi di pace di Dayton. La nuova situazione di crisi politica è rappresentata, ancora una volta, dalla volontà del leader dell’entità serba – la Repubblica srpska – di effettuare un referendum contro le autorità centrali del paese e lo spirito dell’accordo di Dayton. Questa volta l’oggetto del contendere non è come in passato la secessione diretta della RS dalla Bosnia Erzegovina, quanto piuttosto il tentativo di ripristinare come data della festa nazionale della Repubblica srpska il giorno del 9 gennaio, festa di Santo Stefano (santo patrono della Serbia e re della Serbia medioevale) ma anche giorno di fondazione della Repubblica srpska nel 1992. La data è celebrata nella Repubblica srpska come giorno della Repubblica, ma la corte costituzionale di Sarajevo ha deciso che tale data sia anti-costituzionale perché riflette esclusivamente l’identità nazionale ortodossa e dunque incompatibile con i principi di Dayton che prevedono una parità delle tre nazionalità presenti nel paese. Apparentemente una consultazione poco insignificante, questa volta il tentativo di referendum contro la Corte Costituzionale di Sarajevo (che più volte è dovuta intervenire per mettere un freno alle azioni secessioniste del presidente della RS), rischia di essere più insidioso dei precedenti tentativi di proclamazione della secessione, sempre rimandati all’ultimo minuto dopo pressioni politiche esterne, in quanto chiede alla popolazione di pronunciarsi (“Do you agree that January 9 should be marked and celebrated as the Day of Republika Srpska?" sarebbe il testo del referendum proclamato per il 25 settembre) contro una sentenza del Tribunale supremo del paese, aprendo così una formale delegittimazione delle autorità centrali che secondo alcuni aprirebbe la strada per un nuovo referendum secessionista nel 2018. Il Presidente ed il primo ministro serbi Nikolic e Vucic hanno evitato di schierarsi nell’ennesimo braccio di ferro tra Banja Luka e Sarajevo, mentre il Peace Implementation Council, l’organo internazionale che supervisiona gli accordi di Dayton, ha condannato – con l’astensione russa – l’iniziativa dei serbi di Bosnia. Questa volta non è così scontato che Dodik ritiri all’ultimo minuto la sua iniziativa referendaria contro lo Stato centrale (al momento di chiudere questa nota ha subordinato il ritiro del referendum alla cancellazione della sentenza d’incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale), ma se la pressione internazionale dovesse intensificarsi, Dodik potrebbe tentare una via di uscita compromissoria, minimizzando l’iniziativa e non caricandola di valenza politica. Certo che le elezioni locali che si terranno il 2 ottobre sconsiglierebbero un tale passo indietro o quanto meno faranno ritardare fino all’ultimo momento una decisione in proposito. È opportuno ricordare che la comunità internazionale ha più volte minacciato in passato Dodik e i suoi familiari e collaboratori di sanzioni economiche ad personam nel caso di comportamenti ritenuti lesivi della situazione di stabilità del paese e degli accordi di pace. Nel caso del referendum del settembre 2016, tuttavia, ci appare che tale decisione non verrebbe presa a cuor leggero, in quanto il testo del referendum, pur nelle sue implicazioni di portata più generale, di per sé non può essere ritenuto – anche nella sua incompatibilità costituzionale – direttamente lesivo della pace nel paese. Sarebbe un’interpretazione troppo estensiva del concetto di “peace spoiler” da lasciare seri dubbi sulla sua applicabilità. Un tale atto verrebbe a configurarsi come un eccesso di reazione da parte della comunità internazionale, che potrebbe indispettire Mosca e finire davvero per deteriorare in maniera rilevante il clima politico nel paese più instabile della regione. Uno scenario di cui non sente davvero il bisogno. La comunità internazionale dovrà, in questo caso più che nei precedenti, cercare il giusto equilibrio tra il principio dell’inviolabilità dei confini esterni del paese e le dinamiche politiche interne nelle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina, anche a costo di lasciare a Dodik una simbolica vittoria politica.
[1] Nell’Osservatorio Strategico del CeMiSS si utilizzano per la regione in oggetto le seguenti distinzioni geopolitiche, a partire dal nucleo dei Balcani Occidentali, intesi in senso politico come i paesi della regione che al momento non hanno completato il duplice allargamento euro-atlantico: i Balcani Occidentali: composti da Serbia, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Kosovo, Albania; i Balcani, rappresentati dai paesi dei Balcani Occidentali più, Grecia, Croazia e Bulgaria; Europa Sud Orientale: i paesi dei Balcani più Slovenia, Ungheria, Romania, Moldova, Cipro, Turchia. Vi sono numerose motivazioni storiche, politiche e strategiche – che non possono essere approfondite in questo contesto – del perché si è adottata, tra le tante possibili, questa ripartizione geopolitica.
Nel corso del 2016 i cosiddetti Balcani Occidentali (Serbia, Montenegro, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Albania), e più in generale la regione geopolitica dei Balcani[1], sono ritornati nuovamente al centro dell’agenda politica e di sicurezza dei paesi dell’Unione Europea. A essi è stato dedicato l’importante vertice di Parigi di fine luglio, promosso dai tre membri europei più interessati dalle questioni di sicurezza regionale, Francia, Germania e Italia. Il vertice faceva seguito alla rinnovata azione politica avviata da Berlino nel 2014, paese che negli ultimi anni ha spostato sempre più il baricentro della propria politica estera verso la regione balcanica. Questa regione vista nel contesto più ampio dell’Europa Sud Orientale, rappresenta ormai per Berlino la principale area di convergenza di numerose priorità della propria azione esterna, e in particolare qui si vanno ad incrociare numerosi fattori come il rapporto con Mosca, il rapporto con Ankara, il consolidamento dell’Unione Europea attraverso il suo fianco più debole (Grecia, Romania, Bulgaria, Croazia).
Tuttavia, dal vertice di Berlino (2014) al vertice di Parigi sui Balcani (2016), la situazione complessiva di sicurezza si è complessivamente deteriorata e numerosi sono i fattori che hanno portato a una rinnovata attenzione strategica alle dinamiche della regione dell’Europa Sud Orientale e del suo cuore più instabile, i Balcani Occidentali.
Tra i fattori che hanno contribuito al deterioramento del quadro complessivo della situazione della regione possiamo citare:
Il referendum britannico sull’abbandono dell’Unione Europea che ha gettato un profondo sconforto in molte cancellerie della regione. A oltre venti anni dall’avvio della transizione dal comunismo e dall’apertura degli orizzonti europei – che in quasi tutti i paesi della regione è divenuta la nuova ideologia di legittimazione di classi politiche poco credibili – vedere aprirsi il rischio che l’Unione perda un pezzo così importante dei suoi paesi membri, depotenziando notevolmente il senso geopolitico della propria esistenza, ha rappresentato un profondo shock politico, che tra l’altro offre nei Balcani ulteriori argomentazioni ai partiti e movimenti della società civile euro-scettici. Il rischio della cosiddetta Brexit, che fa seguito solo di qualche anno all’altro grande shock politico regionale, il collasso economico, politico e sociale della Grecia, il primo paese dei Balcani divenuto membro dell’Unione Europea, porta in prospettiva anche un aumento della complessità geopolitica esterna alla regione, visto che il Regno Unito è da sempre stato un attore molto assertivo nelle vicende politico – strategiche regionali. Un’eventuale uscita dell’UK dalla UE aumenterebbe, a tal proposito, il gap tra paesi dell’allargamento atlantico e quelli dell’allargamento europeo nei Balcani, aggiungendo un’ulteriore divisione geopolitica alle già molteplici faglie esistenti nella regione. Ma soprattutto, gli effetti negativi del referendum britannico si riscontrano nello spostamento delle risorse e dell’azione politica europea dall’agenda esterna – di cui i Balcani Occidentali rappresentavano il livello più importante – all’agenda interna, quella del salvataggio del progetto stesso della costruzione politico – economica dell’Unione. Alla luce del fatto che molte delle critiche provenienti dai paesi della vecchia Europa verso l’UE sono rivolte alla generosa politica di allargamento dai bassi standard, è chiaro che molti si attendono, come effetto della Brexit, un inasprimento del cammino verso la UE per i paesi della regione. In questo contesto, qualcuno teme che i Balcani tornino a ricoprire, anche agli occhi di Bruxelles, un ruolo tradizionale ma scomodo, quello dei trouble-makers, ovverosia quello della regione interessante per via dei suoi problemi irrisolti di sicurezza, collegati al rischio che potenze esterne che perseguono un’agenda anti europea possono sfruttarle per minare la sicurezza stessa del continente.
Un secondo fattore di grave insicurezza dei Balcani è rappresentato dalla perdurante crisi socio – economica che attraversa pressoché tutti i paesi della regione. Particolarmente grave – e delegittimante per il soft power europeo – è che la continuità della crisi economica, sociale e occupazionale della regione sia proseguita, anzi si sia aggravata, in parallelo all’approfondirsi dei processi di allargamento verso l’Unione Europea e nonostante gli elevati livelli d’impegno finanziario e di assistenza tecnica che l’Unione e le istituzioni finanziarie internazionali hanno dedicato ai paesi dell’allargamento. Anche i paesi che hanno raggiunto il sospirato accesso nell’Unione – come Croazia, Slovenia, Bulgaria, Romania – hanno ricevuto sicuramente dei vantaggi in termini politici e di macro – sicurezza (in parte già raggiunti con l’adesione alla NATO), ma non appaiono aver ricevuto un particolare stimolo economico dall’adesione, né un sostanziale miglioramento degli standard socio – economici interni. Nello scorso decennio i paesi dei Balcani hanno assistito a un progressivo rivelarsi della fallacia dell’assunto del potere trasformativo dell’adesione all’Unione Europea, il principio secondo cui i problemi politici e di sicurezza della regione si sarebbero risolti attraverso la loro marginalizzazione che sarebbe avvenuta in seguito all’aumento degli standard economici e sociali conseguibili attraverso l’adesione all’Unione Europea e comunque dal processo di convergenza verso i suoi standard. Come sostenuto da quest’Osservatorio in anni non sospetti, l’aver basato la risoluzione dei problemi di sicurezza della regione su una visione troppo soft, e comunque caratterizzata da una visione ideologica e sostanzialmente velleitaria delle capacità taumaturgiche della membership europea, ha rappresentato una delle principali carenze strategiche dell’azione dell’Unione Europea nella regione. Il fatto che, oltre ai trasferimenti economici, uno dei principali – e più efficaci – strumenti di condizionamento delle azioni dei paesi della regione sia stato e continui a essere il meccanismo dell’abolizione dei visti, ossia in ultima analisi nella possibilità di abbandonare la regione, rappresenta una chiara evidenza dell’insostenibilità socio-economica delle condizioni di vita nella regione per una gran parte delle classi sociali.
Di più difficile interpretazione è invece il significato dell’evoluzione dei rapporti di Mosca con i paesi dei Balcani e il suo significato per l’Unione Europea. Sicuramente il conflitto con l’Ucraina ha portato a un irrigidimento dei rapporti tra la Russia e i paesi dell’Europa Sud Orientale, anche per via dell’adesione, di membri UE di questa regione, ai meccanismi delle sanzioni. La principale conseguenza strategica di lungo periodo è stata tuttavia quella di aver causato l’impossibilità di proseguire il progetto del gasdotto South-Stream, la cui realizzazione oggi è ulteriormente resa problematica dallo sdoganamento dell’Iran che, rende questo paese un potenziale concorrente per le forniture di gas da Sud Est verso l’Europa così come dal contemporaneo sviluppo dei giacimenti nel Mediterraneo Orientale. Il fatto che sia saltato South Stream, il secondo progetto di nuovo gasdotto verso l’Europa, con cui Mosca avrebbe fortemente condizionato la sicurezza energetica dei paesi dell’Europa Sud Orientale, ha però creato il paradosso di rendere la Russia meno sensibile a un deterioramento delle condizioni di sicurezza della regione. Se il gasdotto fosse andato avanti e gli investimenti russi avessero attraversato i paesi dei Balcani, dalla Bulgaria fino all’Austria, il comportamento geopolitico russo avrebbe dovuto assecondare le necessità di ritorno degli investimenti e la conseguente azione di politica estera di Mosca sarebbe stata indirizzata a supportare la stabilità regionale e contribuire a eliminare le cause di conflitto ancora presenti nella regione. La mancata realizzazione del gasdotto non ha tuttavia modificato la dipendenza dei paesi della regione dagli approvvigionamenti di gas dalla Russia, ma ha privato i paesi attraversati delle royalties che sarebbero derivate dal transito del gas ed ha reso Mosca più indifferente verso la stabilità e instabilità regionale. Inoltre, nel lungo periodo, il futuro energetico della regione dell’Europa Sud Orientale appare essere destinato a gravitare verso Berlino, che – avendo realizzato in tempi record North Stream nel baltico – si appresta al suo raddoppio, con l’obiettivo eventuale di fornire il gas russo all’Europa Sud Orientale attraverso l’Austria. Se questo scenario dovesse svilupparsi ulteriormente, la stabilità della regione sarebbe sempre più caratterizzata dal tenore dei rapporti tra Mosca e Berlino e ed essere influenzata in negativo alle eventuali crisi che possono verificarsi sul bilaterale di questo rapporto estremamente complesso e articolato.
C’è anche da dire che lo scoppio delle guerre in Ucraina e in Siria ha in un certo senso privato i Balcani di quel ruolo tradizionale di polveriera che essi hanno spesso rivestito nella Storia, in cui conflagravano in conflitti gli attriti geopolitici tra le potenze europee ed extra – europee. Attorno ai Balcani vi è ora un’ampia fascia di conflitti in cui vanno a stemperarsi le frizioni geopolitiche tra potenze globali e regionali nella zona dell’euro-asia/mediterraneo orientale, “svalutando” la rilevanza strategica dei conflitti etnici e territoriali di cui i Balcani tuttora abbondano.
Tentando di essere più chiari possibili su questo punto delicato, si può affermare che la possibilità dello scoppio di un conflitto simile a quello della dissoluzione della Jugoslavia degli anni novanta è estremamente improbabile, anche se una contemporanea estensione del conflitto ucraino e di quello siriano non potrebbe che finire per allargarsi ai Balcani. Quest’ultima eventualità appare tuttavia essere remota in quanto non è per il momento nell’interesse di Mosca che essi si saldino; e né potrebbe Mosca sostenere lo sforzo politico – militare su entrambi gli scenari. Tuttavia, come esiste un soft power, esiste anche una via soft alla conflittualità e all’instabilità a bassa intensità e questa vede i Balcani primeggiare come area particolarmente vocata per via del mix di crisi economica, debole statualità, alta influenza di criminalità organizzata e corruzione, prossimità alle aree di conflitto, prosperità nei traffici di armi, presenza di un Islam radicale sempre più forte, mancata riconciliazione tra nazionalità ed etnie e permanente presenza di forze che ambiscono alla revisione dei confini e nutrono aspirazioni secessioniste.
La debolezza e l’inefficacia della risposta europea, e la stessa crisi del modello politico – economico d’integrazione e allargamento, contribuisce a delegittimare i partiti politici che hanno fatto una chiara scelta europeista e rafforza invece i partiti euro-scettici o anti europeisti, che spesso coincidono con le forze più nazionaliste dello scacchiere politico. Parallelamente, sia a destra sia a sinistra, si assiste a una richiesta da parte delle opinioni pubbliche di leader forti e decisionisti, non necessariamente nazionalisti ma sicuramente dirigisti, che promettono una veloce via allo sviluppo economico e sociale e una maggiore tutela di quelli che vengono percepiti come gli interessi nazionali o i valori identitari ed etnici di una parte della popolazione. Ciò spiega la forza perdurante dei nazionalismi o dei partiti che possono essere definiti non riconducibili agli standard liberal-democratici europei, una tendenza che è tutt’altro una prerogativa solo dei Balcani, ma che nei Balcani può sfuggire facilmente di controllo, anche per la debolezza delle istituzioni statali e per la spesso superficiale adesione ai principi democratici abbracciati dopo la caduta del comunismo.
Per il momento ciò si manifesta in una lotta politica condotta spesso al di fuori degli standard democratici ed europei, l’alto livello di consultazioni elettorali e di gravi crisi politiche interne e con la perdurante tendenza a oscillare tra ritorno a modelli autoritari decisionisti tipici del periodo del comunismo e l’immobilismo e il caos di una transizione incompiuta. Occasionalmente ciò prende la forma di opinioni pubbliche facilmente infiammabili su temi territoriali e dei confini, anche quando marginale è l’effettiva rilevanza strategica. Tra le questioni territoriali che possono originare crisi latenti nella regione vi sono la questione della definizione del confine tra Montenegro e Kosovo, l’interminabile questione del contenzioso del nome tra Macedonia e Grecia, la definizione del confine marittimo tra Albania e Grecia, la questione della penisola di Prevlaka tra Montenegro e Croazia (due paesi NATO che hanno temporaneamente risolto la questione per la quale tuttavia non possono escludersi azioni presso i Tribunali internazionali), e quello tra Slovenia e Croazia per la baia di Pirano (quest’ultimo già istradato verso una decisione di un tribunale ad hoc di arbitrato, iter che però ha incontrato vari problemi e scandali). Altre minime questioni territoriali che tornano solitamente in concomitanza di scadenze elettorali esistono tra Bosnia e Croazia e tra Montenegro e Serbia, mentre la definizione del confine tra Macedonia e Kosovo può essere annoverata come un’esperienza di collaborazione positiva e rapida tra i due paesi. Caso a sé fa ovviamente la questione tra Serbia e Kosovo, dal momento che qui non si tratta di una semplice disputa territoriale ma del mancato riconoscimento dell’indipendenza unilaterale di Pristina da Belgrado, indipendenza non riconosciuta non solo da Belgrado ma da numerosi paesi del mondo e da 5 paesi della stessa Unione Europea. Il contenzioso è stato tuttavia “sanitarizzato” dall’azione di politica estera dell’UE, forse il più importante successo di politica estera dell’Unione Europea, che è riuscita a istradare i due governi verso un percorso di dialogo e di accordi che, pur con forti resistenze da entrambe le parti, sta dando alcuni risultati non trascurabili.
I Balcani, perduti in questo limbo di apparente marginalità nella hard security globale, continuano a rivestire un ruolo importante per la soft security regionale e per l’homeland security dell’Unione Europea, come area di transito tra i focolai delle crisi extra europee e l’Unione Europea stessa. Apparentemente il maggiore “ruolo” negativo dei Balcani per la sicurezza europea non è tanto rappresentato dal pericolo di “innesco” di un nuovo conflitto, quanto dal ruolo negativo di transito che i Balcani stanno ricoprendo da almeno tre anni a questa parte in concomitanza con l’aggravarsi del conflitto siriano. Questo ruolo si manifesta in due dimensioni: il ruolo di paesi facilitatori dei transiti di quantità ingestibili di migranti irregolari e richiedenti asilo e quello di hub di jihadisti radicali (da e per l’Europa). In questo ruolo le organizzazioni criminali dei Balcani hanno trovato un’alleanza di fatto con i profughi e i migranti, le prime fornendo dei “servizi” non solo di trasporto ma anche di “corruzione” delle autorità, i secondi trovando la via più rapida e meno pericolosa per accedere allo spazio di libera circolazione dell’Unione Europea. La crisi dei migranti, pur nella sua predominante dimensione umanitaria, racchiude in sé anche numerosi elementi di criticità per la sicurezza e la stabilità europea, la più importante delle quali è rappresentata dal fatto che la creazione di un “autostrada per il traffico di essere umani” senza documenti verificabili o con documenti falsi (il ministero degli interni tedesco ha stimato nel 2015 che un terzo di documenti d’identità siriani dei richiedenti asilo si è rivelato falso) può essere sfruttata per un accesso in incognito nello spazio di libera circolazione europea per gruppi criminali, individui socialmente pericolosi fino agli stessi foreign fighters di ritorno alla ricerca di un sistema incognito per penetrare in Europa. In questo la rotta balcanica offre il miglior rapporto qualità – prezzo – rischio e, com’è stato già più volte provato, essa è stata utilizzata per facilitare l’accesso di terroristi verso l’Unione Europea. Non è invece ancora esattamente stimabile l’effetto che l’ondata di profughi di religione islamica potrà avere sull’Islam balcanico, che negli ultimi anni si è dimostrato essere molto più sensibile ai richiami e alle narrative jihadiste provenienti dal medio-oriente di quanto comunemente si ritenesse. Il numero dei foreign fighters per abitante partiti dai paesi mussulmani dei Balcani per andare a combattere in Siria è in assoluto uno dei più alti d’Europa e dimostra sia una crescente radicalizzazione dell’Islam balcanico – a cui non è stato estraneo il ruolo giocato dalla Turchia come paese facilitatore dei transiti, almeno fino al 2016 – sia rappresenta un ulteriore conferma delle non positive condizioni socio economiche di tali territori.
Questione a parte è rivestita invece dall’ennesima situazione di criticità politica in cui si trova la Bosnia Erzegovina nell’autunno del 2016, ventuno anni dalla fine degli accordi di pace di Dayton. La nuova situazione di crisi politica è rappresentata, ancora una volta, dalla volontà del leader dell’entità serba – la Repubblica srpska – di effettuare un referendum contro le autorità centrali del paese e lo spirito dell’accordo di Dayton. Questa volta l’oggetto del contendere non è come in passato la secessione diretta della RS dalla Bosnia Erzegovina, quanto piuttosto il tentativo di ripristinare come data della festa nazionale della Repubblica srpska il giorno del 9 gennaio, festa di Santo Stefano (santo patrono della Serbia e re della Serbia medioevale) ma anche giorno di fondazione della Repubblica srpska nel 1992. La data è celebrata nella Repubblica srpska come giorno della Repubblica, ma la corte costituzionale di Sarajevo ha deciso che tale data sia anti-costituzionale perché riflette esclusivamente l’identità nazionale ortodossa e dunque incompatibile con i principi di Dayton che prevedono una parità delle tre nazionalità presenti nel paese. Apparentemente una consultazione poco insignificante, questa volta il tentativo di referendum contro la Corte Costituzionale di Sarajevo (che più volte è dovuta intervenire per mettere un freno alle azioni secessioniste del presidente della RS), rischia di essere più insidioso dei precedenti tentativi di proclamazione della secessione, sempre rimandati all’ultimo minuto dopo pressioni politiche esterne, in quanto chiede alla popolazione di pronunciarsi (“Do you agree that January 9 should be marked and celebrated as the Day of Republika Srpska?" sarebbe il testo del referendum proclamato per il 25 settembre) contro una sentenza del Tribunale supremo del paese, aprendo così una formale delegittimazione delle autorità centrali che secondo alcuni aprirebbe la strada per un nuovo referendum secessionista nel 2018. Il Presidente ed il primo ministro serbi Nikolic e Vucic hanno evitato di schierarsi nell’ennesimo braccio di ferro tra Banja Luka e Sarajevo, mentre il Peace Implementation Council, l’organo internazionale che supervisiona gli accordi di Dayton, ha condannato – con l’astensione russa – l’iniziativa dei serbi di Bosnia. Questa volta non è così scontato che Dodik ritiri all’ultimo minuto la sua iniziativa referendaria contro lo Stato centrale (al momento di chiudere questa nota ha subordinato il ritiro del referendum alla cancellazione della sentenza d’incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale), ma se la pressione internazionale dovesse intensificarsi, Dodik potrebbe tentare una via di uscita compromissoria, minimizzando l’iniziativa e non caricandola di valenza politica. Certo che le elezioni locali che si terranno il 2 ottobre sconsiglierebbero un tale passo indietro o quanto meno faranno ritardare fino all’ultimo momento una decisione in proposito. È opportuno ricordare che la comunità internazionale ha più volte minacciato in passato Dodik e i suoi familiari e collaboratori di sanzioni economiche ad personam nel caso di comportamenti ritenuti lesivi della situazione di stabilità del paese e degli accordi di pace. Nel caso del referendum del settembre 2016, tuttavia, ci appare che tale decisione non verrebbe presa a cuor leggero, in quanto il testo del referendum, pur nelle sue implicazioni di portata più generale, di per sé non può essere ritenuto – anche nella sua incompatibilità costituzionale – direttamente lesivo della pace nel paese. Sarebbe un’interpretazione troppo estensiva del concetto di “peace spoiler” da lasciare seri dubbi sulla sua applicabilità. Un tale atto verrebbe a configurarsi come un eccesso di reazione da parte della comunità internazionale, che potrebbe indispettire Mosca e finire davvero per deteriorare in maniera rilevante il clima politico nel paese più instabile della regione. Uno scenario di cui non sente davvero il bisogno. La comunità internazionale dovrà, in questo caso più che nei precedenti, cercare il giusto equilibrio tra il principio dell’inviolabilità dei confini esterni del paese e le dinamiche politiche interne nelle due entità che compongono la Bosnia Erzegovina, anche a costo di lasciare a Dodik una simbolica vittoria politica.
[1] Nell’Osservatorio Strategico del CeMiSS si utilizzano per la regione in oggetto le seguenti distinzioni geopolitiche, a partire dal nucleo dei Balcani Occidentali, intesi in senso politico come i paesi della regione che al momento non hanno completato il duplice allargamento euro-atlantico: i Balcani Occidentali: composti da Serbia, Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Kosovo, Albania; i Balcani, rappresentati dai paesi dei Balcani Occidentali più, Grecia, Croazia e Bulgaria; Europa Sud Orientale: i paesi dei Balcani più Slovenia, Ungheria, Romania, Moldova, Cipro, Turchia. Vi sono numerose motivazioni storiche, politiche e strategiche – che non possono essere approfondite in questo contesto – del perché si è adottata, tra le tante possibili, questa ripartizione geopolitica.