Il vettore orientale della politica estera italiana
1. La questione del vettore orientale dell’azione internazionale dell’Italia va letto nel suo contesto, ossia quello del dilemma dalla complessità inespressa della politica estera italiana.
Sarebbe poco verosimile che un paese complesso e diversificato come l’Italia, sede della più importante religione monoteista del pianeta, ricco di numerosi punti di forza ma anche di sconcertanti debolezze, caratterizzato da sorprendenti contrasti, plasmato da una profondità storica unica ed irripetibile e dalla natura posto a spartiacque geopolitico di un mare su cui insistono i tre continenti più importanti della storia della civiltà, possa esprimere una politica estera monotòna ed unidirezionale.
L’unidirezionalità della politica estera italiana non è né nella natura delle cose né politiche né geopolitiche del nostro paese. Essa è piuttosto il frutto di un accomodamento, un po’ opportunistico un po’ furbesco, ad una situazione di debolezza interna e di marginalità internazionale, a cui si è in buona parte sopperito raschiando fino al fondo le rendite della posizione geopolitica dell’Italia, dal cui bidone effettivamente siamo riusciti ad estrarre profitti sorprendenti con l’impiego di relativamente poche risorse. Merito della posizione di frontiera verso tre aree calde della guerra fredda, come quella balcanica, quella del Levante e quella del Nord Africa. Una lunga frontiera marittima sufficientemente vicina da lasciarci il ruolo di fianco Sud – Orientale del sistema euro-atlantico, ma sufficiente protetta dalla acque del Mare Nostrum per tenerci al riparo dalle instabilità di questo ampio arco di tensione che corre, senza soluzione di continuità, da Gibilterra fino al Golfo del Quarnaro.
La monovettorialità della politica estera non implica ovviamente, una politica estera coerente e costante. Al contrario, una politica estera monovettoriale è più suscettibile a cambiare direzione, anche repentinamente, a seconda dei mutamenti delle convenienze politiche degli ispiratori del momento, siano essi gli Stati Uniti d’America, un'altra grande potenza, o qualche direttorio europeo che determina la direzione del vento che soffia da Bruxelles. Piuttosto, la monovettorialità va intesa come incapacità di un corretto bilanciamento degli interessi nelle scelte principali di politica estera e la prevalenza di una causa unica (esogena o particolare) come fattore determinante non della politica estera complessiva, ma di singole scelte momentanee. La conseguenza di ciò è la difficoltà a conciliare la complessità degli interessi nazionali italiani in una visione realista della politica estera che tenga anche in dovuta considerazione il quadro delle alleanze internazionali e le trasformazioni del sistema internazionale. Spesso, una politica estera monovettoriale è una politica estera povera, che finisce per sacrificare all’interesse forte di turno la ricchezza e la complessità della politica estera e di sicurezza nazionale, perdendo l’occasione per inserire il maggior numero d’interessi nazionali possibili nella azione esterna. Un approccio di realismo nazionale dovrebbe spingere verso l’adozione di un’azione esterna il più possibile multivettoriale, intesa come bilanciamento tra i diversi (e concorrenti) interessi esterni, tra interessi esterni ed interni, e tra diversi (e concorrenti) interessi interni. Sono almeno tre, difatti, i piani su cui si costruisce la politica estera di una media potenza ed il loro complesso bilanciamento dovrebbe rappresentare il cuore di una politica estera realista e sovrana.
2. La matrice monovettoriale della politica estera italiana ed il paradosso del suo sviluppo nel corso degli anni novanta
L’Italia ha una tradizione sostanzialmente monovettoriale della propria politica estera, riconducibile al predominio del vettore esterno euro-atlantico. Ciò è il frutto di una serie di condizioni che si sono create dopo la seconda guerra mondiale, in particolare con l’affermarsi di un sistema di rigidi vincoli, esterni, come la discesa della guerra fredda nella politica internazionale, che interni. Tra questi ultimi, si possono citare gli strutturali deficit di bilancio ed il continuo deterioramento del debito sovrano, la progressiva mediocrizzazione della macchina della Pubblica Amministrazione, la riduzione dei budget dedicati alle relazioni internazionali, il mancato investimento su una cultura internazionalista della nostra classe dirigente e la scarsa efficienza della spesa militare. Col passare degli anni, i vincoli esterni e quelli interni si sono saldati e rafforzati l’un l’altro, trasformando un dato contingente come la debolezza post bellica dell’Italia ed il necessario ruolo di subalternità a cui era costretto un paese sconfitto, in un dato quasi strutturale del panorama geopolitico europeo.
Se nel secondo dopoguerra la dialettica tra vincoli ed ambizioni si risolve a favore dei primi, ciò fu in buona parte dovuto a condizioni politiche e materiali sfavorevoli, ma non bisogna tralasciare – sul piano concettuale – l’effetto del progressivo affermarsi di un egemonia di scuole di pensiero sulle relazioni internazionali per lo più basate sulla rimozione del concetto dell’interesse nazionale dallo schermo radar delle politiche pubbliche verso l’estero. Se ciò non ha impedito alla diplomazia italiana di portare avanti, dietro le quinte della cortina della guerra fredda, importanti azioni di ampliamento del raggio d’azione della politica estera nazionale, ciò è avvenuto in maniera non sistematica ed in parte proprio come deviazione da quella che oggi definiremo la “narrativa mainstream”. Al punto che, difficilmente, tali azioni possono essere unite tra loro a comporre una chiara linea politica di lungo periodo. Tali iniziative cadevano al di fuori del limes euro-atlantico, e rappresentavano la dimensione più esterna e più fluida della politica estera italiana, ossia il terzo cerchio d’azione oltre i due cerchi principali e concentrici, della sicurezza atlantica e dell’integrazione economica europea. Se questo sistema di parziale autonomia esterna, che tuttavia consentiva all’Italia mirate, occasionali, e non strutturate iniziative geopolitiche nazionali, aveva una sua logica nelle dinamiche rigide della guerra fredda, esso avrebbe dovuto perdere buona parte del suo valore nel nuovo contesto geopolitico post 1989, apertosi all’insegna di una attenuazione dei vincoli della hard security e dal processo di ridefinizione di nuovi spazi geopolitici.
Paradossalmente, i due decenni post guerra fredda, non hanno visto un cambio nella postura internazionale dell’Italia. Sono mancati maggiori investimenti materiali nel campo della politica estera e di sicurezza, così come l’apertura di un dibattito concettuale sull’utilità dell’azione esterna dell’Italia e sulla necessità di ridarle complessità e multivettorialità per affrontare la nuova frammentazione geopolitica dell’Estero Vicino europeo. Gli anni novanta, al contrario, così come buona parte del decennio successivo, hanno rappresentato una tappa ulteriore del processo di tendenziale impoverimento e riduzione dell’autonomia della sfera d’azione esterna italiana. Agli attenuati vincoli rigidi atlantici sono subentrati gli ancora più restringenti vincoli soft prodotti dal processo d’integrazione europeo e la costante erosione del principio di sovranità verso un numero crescente di livelli ed entità sovranazionali, subnazionali o private. In particolare, proprio quest’ultimo paradigma, quello della costruzione di un Unione Europea per sottrazione, e non per somma, delle sovranità nazionale può ritenersi in buona parte responsabile del paradosso del “ventennio perduto dell’Europa” e dell’incapacità degli Stati europei a riprendere in mano, dopo cinque decenni di sicurezza assistita sotto l’ombrello statunitense, la costruzione, delimitazione e difesa di un proprio spazio geopolitico europeo. Certamente, il contesto economico-ideologico dell’ultima fase della globalizzazione (e con esso gli scenari da “End of History” e da “World is Flat”) ha giocato un suo fondamentale ruolo nel produrre in molti paesi europei ed Occidentali l’illusione di essere entrati in una fase di congelamento della Storia che avrebbe garantito i loro interessi e salvaguardatone la sicurezza e le posizioni geopolitiche. Ciò sarebbe in buona parte dovuto avvenire attraverso il trasferimento, più o meno consenziente, di potere decisionale verso una serie di livelli di governo sovranazionali (un’indefinita “governance”), più o meno funzionalisti o tecnocratici, come il sistema onusiano, quello dell’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio eccetera. In questa ambizione occidentale conservatrice del “desovranizzare per preservare”, la classe politico-decisionale italiana ha voluto credere e sperare forse ben oltre ogni ragionevole evidenza. Eppure, da un confronto con molti altri paesi del mondo, emerge che non sono pochi gli Stati che hanno invece interpretato, con esiti più o meno favorevoli, questo stesso periodo storico come una finestra di opportunità per rafforzare la sovranità nazionale, accrescere il ruolo internazionale e ampliare il proprio spazio d’azione geopolitico, in una logica sostanzialmente non conservatrice ma revisionista degli assetti internazionali usciti dalla guerra fredda. Tra questi paesi, vanno ad esempio annoverati gli Stati Uniti d’America, i quattro BRIC (Brasile, Russia India e Cina), l’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Etiopia e la Germania, ma anche molti dei paesi di nuova indipendenza dell’Europa Orientale. Il timido dibattito apertosi in Italia nel corso degli anni novanta sulla ri-definizione dell’interesse nazionale non ha di fatto lasciato alcun segno, essendosi presto richiuso, appena aperto, con la formula vaga ed indefinita degli “interessi nazionali bipartizan”. Da cui, ovviamente non può che derivare una politica estera bipartizan.
3. La dimensione orientale della politica estera italiana nel contesto di un frammentato quadro geopolitico. La politica multivettoriale verso Levante, le due Eurasie e il rapporto con Mosca.
Nei primi due paragrafi di questo articolo abbiamo sommariamente tracciato quelli che, a nostro avviso, è stato uno dei caratteri costanti della politica estera italiana nei primi settant’anni di vita della Repubblica, che ha attraversato tre differenti ventenni strategici: quello dell’immediato dopoguerra (anni 50 – 60), quello del culmine della guerra fredda (anni 70 – 80) e quello del mondo post 1989 (1990 – 2008). Tre periodi e fasi diverse in cui l’Italia ha declinato, in contesti storici differenti, la propria identità euro-occidentale ed euro-atlantica, restando nell’alveo di una sostanziale monovettorialità, ossia di uno spazio egemone esterno che definiva, proteggeva e condizionava la libertà d’azione. Se il primo era caratterizzato dal nascente bipolarismo competitivo ed il secondo dalla progressiva affermazione del sistema euro-atlantico su quello socialista, il terzo si è invece sviluppato nella direzione dell’insostenibile binomio di una globalizzazione sospesa tra unilateralismo americano e “governance” globale. Questo terzo ventennio della politica estera, che sulla Carta sarebbe dovuto essere il meno difficile dei tre, si è in realtà rivelato profondamente pericoloso per gli interessi nazionali italiani ed estremamente insidioso per il ruolo internazionale dell’Italia, che ha subito il maggiore declassamento internazionale dal dopoguerra, sia nei confronti di molti paesi emergenti, che nei confronti di diversi paesi euro-atlantici. Il nuovo ambiente strategico è risultato caratterizzato da un ampio e generalizzato processo di revisionismo dello status quo, da violenta frammentazione geopolitica, intensificarsi di guerre civili infrastatuali, dall’estensione dell’uso della forza per l’esportazione della democrazia o a servizio di principi umanitari, da una progressiva promozione di numerosi fattori erosivi della sovranità, così come da ampie e ripetute violazioni della Carta delle Nazioni Unite, e dall’emersione di identità etniche centrifughe e fondamentalismo religioso come potenti drivers di destrutturazione di molti Stati. Per molti versi questa fase è da ritenersi conclusa, già a partire dal 2008 quando, con la crisi economica e finanziaria, iniziano ad essere evidenti i numerosi fattori di stallo del modello occidentale, non solo più di sola natura geopolitica. Al 2008, viene fatto risalire anche il cambio di strategia da parte della Russia ed il passaggio da una fase di contrazione geopolitica, ad una fase nuovamente espansiva, che ha visto l’apertura nel Caucaso ed in Ucraina, due paesi interessati dai più ottimistici piani di allargamento ad Est della NATO, su iniziativa russa di due nuovi frozen conflicts, nello spazio ex sovietico, in aggiunta a quelli ereditati dalla dissoluzione del 1991. Anche il caotico crollo di diversi regimi socialisti arabi, avvenuto dopo le proteste del 2011, ed in particolare lo scoppio della guerra civile siriana e la nascita dello Stato Islamico, hanno rappresentato un ulteriore elemento che ha rafforzato la posizione russa ed il ruolo geopolitico nel Mediterraneo mentre ha ulteriormente indebolito la posizione occidentale, anche per via degli errori geopolitici commessi dalla Turchia.
Il ritorno geopolitico russo nell’Est ed in Medio Oriente, è tuttavia inestricabilmente legato ad una situazione di deterioramento della sicurezza regionale e alla spiacevole sensazione che l’Europa potrebbe essere sull’orlo di un ritorno verso una nuova Guerra Fredda. Nonostante non vi siano fatti oggettivi sufficientemente gravi da farla ritenere uno scenario prossimo, non bisogna sottovalutare l’accresciuto uso di argomenti e narrazioni da Guerra Fredda che sempre più penetrano nei discorsi politici e strategici che si fanno in alcuni paesi Occidentali e, soprattutto, a Mosca. È bene comunque tener presente che un eventuale riacutizzarsi della conflittualità tra USA e Russia, non verrebbe a riproporsi nella maniera manichea dello scontro ideologico globale Est – Ovest tra due visioni autoescludenti della società, come avvenne dopo il 1945, ma piuttosto lungo cluster di conflitto sub regionali, in cui cambiano gli attori, i ruoli e le alleanze. Se sarà una guerra fredda, sarà à la carte con un numero elevatissimo di paradossi geopolitici e con il dilagare del “adhochismo”. Un processo di movimento in ordine sparso che, per quanto riguarda l’Occidente, e l’Europa in particolare, è iniziato già con il riconoscimento dell’indipendenza unilaterale del Kosovo nel 2008 è proseguito con il conflitto libico e con lo stesso conflitto siriano. Tutti esempi che dimostrano come ormai, di fatto, non esiste più una cogenza o anche una comune politica ispiratrice delle politiche estere nazionali da parte dei singoli stati del sistema euro-atlantico. Se questo clima geopolitico dovesse consolidarsi, esso costringerà i vari attori internazionali ad assumere, specialmente per quanto riguarda le politiche da porre in essere nell’area che va dal Mediterraneo centrale ai Balcani Occidentali, azioni di politica estera multivettoriali, ossia non più derivate da un macro vettore di politica internazionale ma piuttosto da molteplici linee politiche che ciascun paese costruisce ad hoc in funzione degli specifici scenari e dalle alleanze sui generis che vi si comporranno. La politica estera turca prima che Erdogan imprimesse la svolta neo-ottomana potrebbe rappresentare un utile modello concettuale di riferimento di cosa può rappresentare una politica multivettoriale nei vari teatri e delle difficoltà di bilanciamento che essa comporta.
Un tale scenario porterebbe con se dei cambiamenti significativi anche per la politica estera italiana, in quanto produrrebbe un decisivo aumento della complessità geopolitica, sia per quanto riguarda i diversi quadranti d’operazione, sia per quanto riguarda la politica e la strategia delle alleanze. In secondo luogo verrebbero messe ulteriormente a rischio le relazioni economiche e commerciali con la Russia e svanirebbe ogni possibilità di riaprire la partnership strategica EU – Russia, strumento fondamentale per l’Italia per bilanciare l’asimmetrico rapporto bilaterale con Mosca. Inoltre in tale scenario verrebbe verosimilmente ad aumentare la competizione strategica tra Turchia, Russia ed Iran.
L’attuale fase di crisi del modello politico-economico dell’Unione Europea, la riduzione della valenza strategica della NATO, il progressivo disimpegno controllato americano dalla regione, la deriva islamista della Turchia ed il ritorno politico-strategico di Mosca sono tutti fattori che portano al deterioramento del quadro strategico complessivo ma non lasciano intravedere nessuna nuova agevole opzione di equilibrio. Sarebbe pertanto inutile per l’Italia, nel presente quadro strategico, surrogare l’Alleanza strategica con gli USA con un rapporto sempre più stretto con Mosca. Quand’anche ciò fosse possibile senza alienare l’amicizia con Washington, il problema di oggi, non è quello di sostituire il partner principale del vecchio sistema unilaterale e monodirezionale della politica estera italiana, né tantomeno avviare un improbabile pendolarismo tra i due unilateralismi concorrenti, quanto piuttosto quello di contribuire a rallentare il processo di frammentazione geopolitica dell’Estero Vicino europeo.
Per l’Italia è dunque fondamentale operare per creare le condizioni per isolare i conflitti congelati che coinvolgono la Russia e soprattutto evitare che essi si saldino con le instabilità medio-orientali e con quelle balcaniche. Difatti, dal deterioramento del rapporto tra Washington e Mosca l’Italia non ha da perdere solo nei confronti delle opportunità commerciali ed energetiche verso la Russia ma rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di aree chiavi per i nostri interessi economici come quella dell’Europa Sud Orientale, del Mediterraneo Orientale e del Nord Africa.
Nell’evitare la clusterizzazione del proprio estero vicino e la sua trasformazione in una rete di frozen conflicts e mini guerre fredde combattute a livello sub-regionale, l’Italia non tutela solo la stabilità del proprio vicinato strategico ed i propri interessi commerciali con Mosca ma anche lo stesso concetto di Mediterraneo allargato che collega l’Europa con l’Asia che non passano per la Russia e che da secoli garantiscono il benessere commerciale e la rilevanza internazionale del nostro paese. Difatti, occorre ricordare che almeno due – se non tre – sono le vie euroasiatiche per l’Italia. Oltre a quella che fa perno su rapporti bilaterali con Mosca e alle reti che attraversano lo spazio ex – sovietico, l’Italia mantiene da tempo fecondi rapporti con le altre vie euro-asiatiche meridionali, quelle che, attraversando il mondo mussulmano, passano l’una attraverso i rapporti con la Turchia ed il mondo turcofono, e l’altra per le relazioni con l’Iran. La via settentrionale all’Eurasia è la vecchia via dell’Ambra, che passa per l’Europa Centro Orientale e la Russia e che sul piano culturale si avvale anche della comune matrice cristiana di questi paesi. Le Eurasie meridionali seguono le rotte di Genova e Venezia, e si sviluppano lungo quella che era la Via della Seta e fanno perno su Ankara e Teheran e sul mondo islamico asiatico.
Nell’attuale crisi con la Russia l’Italia ha interesse a mantenere un rapporto fermo ma della mano tesa con la Mosca, che porti a recuperare quanto prima la Russia nel pieno delle relazioni economiche e commerciali con l’Europa, senza rovinare i nostri rapporti con i paesi Occidentali preoccupati dal ritorno russo e salvaguardando al tempo stesso le relazioni regionali tra Turchia – Iran e Russia. È una difficilissima quadratura del cerchio che l’Italia deve trovare la forza di perseguire, sviluppando una coordinata azione multivettoriale verso ciascuno dei paesi chiave di questa crisi. Un primo tassello per sbrogliare questa matassa potrebbe essere sul piano bilaterale verso la Russia, chiedendo a Mosca di fare un primo passo distensivo per testare le volontà di appeasement europee. Una mossa in questo senso potrebbe essere quella dell’abolizione unilaterale da parte russa dei decreti presidenziali che impongono le contro-sanzioni verso una serie di prodotti europei, tra cui molti prodotti dell’agroalimentare italiano. Sarebbe un segnale positivo degno di una grande potenza, a cui l’Europa dovrebbe impegnarsi a dare un proprio seguito nella revisione di parte dell’impianto sanzionatorio contro Mosca.
Paolo Quercia
9 maggio 2016
Pubblicato sulla rivista "Il Nodo di Gordio"
1. La questione del vettore orientale dell’azione internazionale dell’Italia va letto nel suo contesto, ossia quello del dilemma dalla complessità inespressa della politica estera italiana.
Sarebbe poco verosimile che un paese complesso e diversificato come l’Italia, sede della più importante religione monoteista del pianeta, ricco di numerosi punti di forza ma anche di sconcertanti debolezze, caratterizzato da sorprendenti contrasti, plasmato da una profondità storica unica ed irripetibile e dalla natura posto a spartiacque geopolitico di un mare su cui insistono i tre continenti più importanti della storia della civiltà, possa esprimere una politica estera monotòna ed unidirezionale.
L’unidirezionalità della politica estera italiana non è né nella natura delle cose né politiche né geopolitiche del nostro paese. Essa è piuttosto il frutto di un accomodamento, un po’ opportunistico un po’ furbesco, ad una situazione di debolezza interna e di marginalità internazionale, a cui si è in buona parte sopperito raschiando fino al fondo le rendite della posizione geopolitica dell’Italia, dal cui bidone effettivamente siamo riusciti ad estrarre profitti sorprendenti con l’impiego di relativamente poche risorse. Merito della posizione di frontiera verso tre aree calde della guerra fredda, come quella balcanica, quella del Levante e quella del Nord Africa. Una lunga frontiera marittima sufficientemente vicina da lasciarci il ruolo di fianco Sud – Orientale del sistema euro-atlantico, ma sufficiente protetta dalla acque del Mare Nostrum per tenerci al riparo dalle instabilità di questo ampio arco di tensione che corre, senza soluzione di continuità, da Gibilterra fino al Golfo del Quarnaro.
La monovettorialità della politica estera non implica ovviamente, una politica estera coerente e costante. Al contrario, una politica estera monovettoriale è più suscettibile a cambiare direzione, anche repentinamente, a seconda dei mutamenti delle convenienze politiche degli ispiratori del momento, siano essi gli Stati Uniti d’America, un'altra grande potenza, o qualche direttorio europeo che determina la direzione del vento che soffia da Bruxelles. Piuttosto, la monovettorialità va intesa come incapacità di un corretto bilanciamento degli interessi nelle scelte principali di politica estera e la prevalenza di una causa unica (esogena o particolare) come fattore determinante non della politica estera complessiva, ma di singole scelte momentanee. La conseguenza di ciò è la difficoltà a conciliare la complessità degli interessi nazionali italiani in una visione realista della politica estera che tenga anche in dovuta considerazione il quadro delle alleanze internazionali e le trasformazioni del sistema internazionale. Spesso, una politica estera monovettoriale è una politica estera povera, che finisce per sacrificare all’interesse forte di turno la ricchezza e la complessità della politica estera e di sicurezza nazionale, perdendo l’occasione per inserire il maggior numero d’interessi nazionali possibili nella azione esterna. Un approccio di realismo nazionale dovrebbe spingere verso l’adozione di un’azione esterna il più possibile multivettoriale, intesa come bilanciamento tra i diversi (e concorrenti) interessi esterni, tra interessi esterni ed interni, e tra diversi (e concorrenti) interessi interni. Sono almeno tre, difatti, i piani su cui si costruisce la politica estera di una media potenza ed il loro complesso bilanciamento dovrebbe rappresentare il cuore di una politica estera realista e sovrana.
2. La matrice monovettoriale della politica estera italiana ed il paradosso del suo sviluppo nel corso degli anni novanta
L’Italia ha una tradizione sostanzialmente monovettoriale della propria politica estera, riconducibile al predominio del vettore esterno euro-atlantico. Ciò è il frutto di una serie di condizioni che si sono create dopo la seconda guerra mondiale, in particolare con l’affermarsi di un sistema di rigidi vincoli, esterni, come la discesa della guerra fredda nella politica internazionale, che interni. Tra questi ultimi, si possono citare gli strutturali deficit di bilancio ed il continuo deterioramento del debito sovrano, la progressiva mediocrizzazione della macchina della Pubblica Amministrazione, la riduzione dei budget dedicati alle relazioni internazionali, il mancato investimento su una cultura internazionalista della nostra classe dirigente e la scarsa efficienza della spesa militare. Col passare degli anni, i vincoli esterni e quelli interni si sono saldati e rafforzati l’un l’altro, trasformando un dato contingente come la debolezza post bellica dell’Italia ed il necessario ruolo di subalternità a cui era costretto un paese sconfitto, in un dato quasi strutturale del panorama geopolitico europeo.
Se nel secondo dopoguerra la dialettica tra vincoli ed ambizioni si risolve a favore dei primi, ciò fu in buona parte dovuto a condizioni politiche e materiali sfavorevoli, ma non bisogna tralasciare – sul piano concettuale – l’effetto del progressivo affermarsi di un egemonia di scuole di pensiero sulle relazioni internazionali per lo più basate sulla rimozione del concetto dell’interesse nazionale dallo schermo radar delle politiche pubbliche verso l’estero. Se ciò non ha impedito alla diplomazia italiana di portare avanti, dietro le quinte della cortina della guerra fredda, importanti azioni di ampliamento del raggio d’azione della politica estera nazionale, ciò è avvenuto in maniera non sistematica ed in parte proprio come deviazione da quella che oggi definiremo la “narrativa mainstream”. Al punto che, difficilmente, tali azioni possono essere unite tra loro a comporre una chiara linea politica di lungo periodo. Tali iniziative cadevano al di fuori del limes euro-atlantico, e rappresentavano la dimensione più esterna e più fluida della politica estera italiana, ossia il terzo cerchio d’azione oltre i due cerchi principali e concentrici, della sicurezza atlantica e dell’integrazione economica europea. Se questo sistema di parziale autonomia esterna, che tuttavia consentiva all’Italia mirate, occasionali, e non strutturate iniziative geopolitiche nazionali, aveva una sua logica nelle dinamiche rigide della guerra fredda, esso avrebbe dovuto perdere buona parte del suo valore nel nuovo contesto geopolitico post 1989, apertosi all’insegna di una attenuazione dei vincoli della hard security e dal processo di ridefinizione di nuovi spazi geopolitici.
Paradossalmente, i due decenni post guerra fredda, non hanno visto un cambio nella postura internazionale dell’Italia. Sono mancati maggiori investimenti materiali nel campo della politica estera e di sicurezza, così come l’apertura di un dibattito concettuale sull’utilità dell’azione esterna dell’Italia e sulla necessità di ridarle complessità e multivettorialità per affrontare la nuova frammentazione geopolitica dell’Estero Vicino europeo. Gli anni novanta, al contrario, così come buona parte del decennio successivo, hanno rappresentato una tappa ulteriore del processo di tendenziale impoverimento e riduzione dell’autonomia della sfera d’azione esterna italiana. Agli attenuati vincoli rigidi atlantici sono subentrati gli ancora più restringenti vincoli soft prodotti dal processo d’integrazione europeo e la costante erosione del principio di sovranità verso un numero crescente di livelli ed entità sovranazionali, subnazionali o private. In particolare, proprio quest’ultimo paradigma, quello della costruzione di un Unione Europea per sottrazione, e non per somma, delle sovranità nazionale può ritenersi in buona parte responsabile del paradosso del “ventennio perduto dell’Europa” e dell’incapacità degli Stati europei a riprendere in mano, dopo cinque decenni di sicurezza assistita sotto l’ombrello statunitense, la costruzione, delimitazione e difesa di un proprio spazio geopolitico europeo. Certamente, il contesto economico-ideologico dell’ultima fase della globalizzazione (e con esso gli scenari da “End of History” e da “World is Flat”) ha giocato un suo fondamentale ruolo nel produrre in molti paesi europei ed Occidentali l’illusione di essere entrati in una fase di congelamento della Storia che avrebbe garantito i loro interessi e salvaguardatone la sicurezza e le posizioni geopolitiche. Ciò sarebbe in buona parte dovuto avvenire attraverso il trasferimento, più o meno consenziente, di potere decisionale verso una serie di livelli di governo sovranazionali (un’indefinita “governance”), più o meno funzionalisti o tecnocratici, come il sistema onusiano, quello dell’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio eccetera. In questa ambizione occidentale conservatrice del “desovranizzare per preservare”, la classe politico-decisionale italiana ha voluto credere e sperare forse ben oltre ogni ragionevole evidenza. Eppure, da un confronto con molti altri paesi del mondo, emerge che non sono pochi gli Stati che hanno invece interpretato, con esiti più o meno favorevoli, questo stesso periodo storico come una finestra di opportunità per rafforzare la sovranità nazionale, accrescere il ruolo internazionale e ampliare il proprio spazio d’azione geopolitico, in una logica sostanzialmente non conservatrice ma revisionista degli assetti internazionali usciti dalla guerra fredda. Tra questi paesi, vanno ad esempio annoverati gli Stati Uniti d’America, i quattro BRIC (Brasile, Russia India e Cina), l’Iran, l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Etiopia e la Germania, ma anche molti dei paesi di nuova indipendenza dell’Europa Orientale. Il timido dibattito apertosi in Italia nel corso degli anni novanta sulla ri-definizione dell’interesse nazionale non ha di fatto lasciato alcun segno, essendosi presto richiuso, appena aperto, con la formula vaga ed indefinita degli “interessi nazionali bipartizan”. Da cui, ovviamente non può che derivare una politica estera bipartizan.
3. La dimensione orientale della politica estera italiana nel contesto di un frammentato quadro geopolitico. La politica multivettoriale verso Levante, le due Eurasie e il rapporto con Mosca.
Nei primi due paragrafi di questo articolo abbiamo sommariamente tracciato quelli che, a nostro avviso, è stato uno dei caratteri costanti della politica estera italiana nei primi settant’anni di vita della Repubblica, che ha attraversato tre differenti ventenni strategici: quello dell’immediato dopoguerra (anni 50 – 60), quello del culmine della guerra fredda (anni 70 – 80) e quello del mondo post 1989 (1990 – 2008). Tre periodi e fasi diverse in cui l’Italia ha declinato, in contesti storici differenti, la propria identità euro-occidentale ed euro-atlantica, restando nell’alveo di una sostanziale monovettorialità, ossia di uno spazio egemone esterno che definiva, proteggeva e condizionava la libertà d’azione. Se il primo era caratterizzato dal nascente bipolarismo competitivo ed il secondo dalla progressiva affermazione del sistema euro-atlantico su quello socialista, il terzo si è invece sviluppato nella direzione dell’insostenibile binomio di una globalizzazione sospesa tra unilateralismo americano e “governance” globale. Questo terzo ventennio della politica estera, che sulla Carta sarebbe dovuto essere il meno difficile dei tre, si è in realtà rivelato profondamente pericoloso per gli interessi nazionali italiani ed estremamente insidioso per il ruolo internazionale dell’Italia, che ha subito il maggiore declassamento internazionale dal dopoguerra, sia nei confronti di molti paesi emergenti, che nei confronti di diversi paesi euro-atlantici. Il nuovo ambiente strategico è risultato caratterizzato da un ampio e generalizzato processo di revisionismo dello status quo, da violenta frammentazione geopolitica, intensificarsi di guerre civili infrastatuali, dall’estensione dell’uso della forza per l’esportazione della democrazia o a servizio di principi umanitari, da una progressiva promozione di numerosi fattori erosivi della sovranità, così come da ampie e ripetute violazioni della Carta delle Nazioni Unite, e dall’emersione di identità etniche centrifughe e fondamentalismo religioso come potenti drivers di destrutturazione di molti Stati. Per molti versi questa fase è da ritenersi conclusa, già a partire dal 2008 quando, con la crisi economica e finanziaria, iniziano ad essere evidenti i numerosi fattori di stallo del modello occidentale, non solo più di sola natura geopolitica. Al 2008, viene fatto risalire anche il cambio di strategia da parte della Russia ed il passaggio da una fase di contrazione geopolitica, ad una fase nuovamente espansiva, che ha visto l’apertura nel Caucaso ed in Ucraina, due paesi interessati dai più ottimistici piani di allargamento ad Est della NATO, su iniziativa russa di due nuovi frozen conflicts, nello spazio ex sovietico, in aggiunta a quelli ereditati dalla dissoluzione del 1991. Anche il caotico crollo di diversi regimi socialisti arabi, avvenuto dopo le proteste del 2011, ed in particolare lo scoppio della guerra civile siriana e la nascita dello Stato Islamico, hanno rappresentato un ulteriore elemento che ha rafforzato la posizione russa ed il ruolo geopolitico nel Mediterraneo mentre ha ulteriormente indebolito la posizione occidentale, anche per via degli errori geopolitici commessi dalla Turchia.
Il ritorno geopolitico russo nell’Est ed in Medio Oriente, è tuttavia inestricabilmente legato ad una situazione di deterioramento della sicurezza regionale e alla spiacevole sensazione che l’Europa potrebbe essere sull’orlo di un ritorno verso una nuova Guerra Fredda. Nonostante non vi siano fatti oggettivi sufficientemente gravi da farla ritenere uno scenario prossimo, non bisogna sottovalutare l’accresciuto uso di argomenti e narrazioni da Guerra Fredda che sempre più penetrano nei discorsi politici e strategici che si fanno in alcuni paesi Occidentali e, soprattutto, a Mosca. È bene comunque tener presente che un eventuale riacutizzarsi della conflittualità tra USA e Russia, non verrebbe a riproporsi nella maniera manichea dello scontro ideologico globale Est – Ovest tra due visioni autoescludenti della società, come avvenne dopo il 1945, ma piuttosto lungo cluster di conflitto sub regionali, in cui cambiano gli attori, i ruoli e le alleanze. Se sarà una guerra fredda, sarà à la carte con un numero elevatissimo di paradossi geopolitici e con il dilagare del “adhochismo”. Un processo di movimento in ordine sparso che, per quanto riguarda l’Occidente, e l’Europa in particolare, è iniziato già con il riconoscimento dell’indipendenza unilaterale del Kosovo nel 2008 è proseguito con il conflitto libico e con lo stesso conflitto siriano. Tutti esempi che dimostrano come ormai, di fatto, non esiste più una cogenza o anche una comune politica ispiratrice delle politiche estere nazionali da parte dei singoli stati del sistema euro-atlantico. Se questo clima geopolitico dovesse consolidarsi, esso costringerà i vari attori internazionali ad assumere, specialmente per quanto riguarda le politiche da porre in essere nell’area che va dal Mediterraneo centrale ai Balcani Occidentali, azioni di politica estera multivettoriali, ossia non più derivate da un macro vettore di politica internazionale ma piuttosto da molteplici linee politiche che ciascun paese costruisce ad hoc in funzione degli specifici scenari e dalle alleanze sui generis che vi si comporranno. La politica estera turca prima che Erdogan imprimesse la svolta neo-ottomana potrebbe rappresentare un utile modello concettuale di riferimento di cosa può rappresentare una politica multivettoriale nei vari teatri e delle difficoltà di bilanciamento che essa comporta.
Un tale scenario porterebbe con se dei cambiamenti significativi anche per la politica estera italiana, in quanto produrrebbe un decisivo aumento della complessità geopolitica, sia per quanto riguarda i diversi quadranti d’operazione, sia per quanto riguarda la politica e la strategia delle alleanze. In secondo luogo verrebbero messe ulteriormente a rischio le relazioni economiche e commerciali con la Russia e svanirebbe ogni possibilità di riaprire la partnership strategica EU – Russia, strumento fondamentale per l’Italia per bilanciare l’asimmetrico rapporto bilaterale con Mosca. Inoltre in tale scenario verrebbe verosimilmente ad aumentare la competizione strategica tra Turchia, Russia ed Iran.
L’attuale fase di crisi del modello politico-economico dell’Unione Europea, la riduzione della valenza strategica della NATO, il progressivo disimpegno controllato americano dalla regione, la deriva islamista della Turchia ed il ritorno politico-strategico di Mosca sono tutti fattori che portano al deterioramento del quadro strategico complessivo ma non lasciano intravedere nessuna nuova agevole opzione di equilibrio. Sarebbe pertanto inutile per l’Italia, nel presente quadro strategico, surrogare l’Alleanza strategica con gli USA con un rapporto sempre più stretto con Mosca. Quand’anche ciò fosse possibile senza alienare l’amicizia con Washington, il problema di oggi, non è quello di sostituire il partner principale del vecchio sistema unilaterale e monodirezionale della politica estera italiana, né tantomeno avviare un improbabile pendolarismo tra i due unilateralismi concorrenti, quanto piuttosto quello di contribuire a rallentare il processo di frammentazione geopolitica dell’Estero Vicino europeo.
Per l’Italia è dunque fondamentale operare per creare le condizioni per isolare i conflitti congelati che coinvolgono la Russia e soprattutto evitare che essi si saldino con le instabilità medio-orientali e con quelle balcaniche. Difatti, dal deterioramento del rapporto tra Washington e Mosca l’Italia non ha da perdere solo nei confronti delle opportunità commerciali ed energetiche verso la Russia ma rischia di mettere a repentaglio la sicurezza di aree chiavi per i nostri interessi economici come quella dell’Europa Sud Orientale, del Mediterraneo Orientale e del Nord Africa.
Nell’evitare la clusterizzazione del proprio estero vicino e la sua trasformazione in una rete di frozen conflicts e mini guerre fredde combattute a livello sub-regionale, l’Italia non tutela solo la stabilità del proprio vicinato strategico ed i propri interessi commerciali con Mosca ma anche lo stesso concetto di Mediterraneo allargato che collega l’Europa con l’Asia che non passano per la Russia e che da secoli garantiscono il benessere commerciale e la rilevanza internazionale del nostro paese. Difatti, occorre ricordare che almeno due – se non tre – sono le vie euroasiatiche per l’Italia. Oltre a quella che fa perno su rapporti bilaterali con Mosca e alle reti che attraversano lo spazio ex – sovietico, l’Italia mantiene da tempo fecondi rapporti con le altre vie euro-asiatiche meridionali, quelle che, attraversando il mondo mussulmano, passano l’una attraverso i rapporti con la Turchia ed il mondo turcofono, e l’altra per le relazioni con l’Iran. La via settentrionale all’Eurasia è la vecchia via dell’Ambra, che passa per l’Europa Centro Orientale e la Russia e che sul piano culturale si avvale anche della comune matrice cristiana di questi paesi. Le Eurasie meridionali seguono le rotte di Genova e Venezia, e si sviluppano lungo quella che era la Via della Seta e fanno perno su Ankara e Teheran e sul mondo islamico asiatico.
Nell’attuale crisi con la Russia l’Italia ha interesse a mantenere un rapporto fermo ma della mano tesa con la Mosca, che porti a recuperare quanto prima la Russia nel pieno delle relazioni economiche e commerciali con l’Europa, senza rovinare i nostri rapporti con i paesi Occidentali preoccupati dal ritorno russo e salvaguardando al tempo stesso le relazioni regionali tra Turchia – Iran e Russia. È una difficilissima quadratura del cerchio che l’Italia deve trovare la forza di perseguire, sviluppando una coordinata azione multivettoriale verso ciascuno dei paesi chiave di questa crisi. Un primo tassello per sbrogliare questa matassa potrebbe essere sul piano bilaterale verso la Russia, chiedendo a Mosca di fare un primo passo distensivo per testare le volontà di appeasement europee. Una mossa in questo senso potrebbe essere quella dell’abolizione unilaterale da parte russa dei decreti presidenziali che impongono le contro-sanzioni verso una serie di prodotti europei, tra cui molti prodotti dell’agroalimentare italiano. Sarebbe un segnale positivo degno di una grande potenza, a cui l’Europa dovrebbe impegnarsi a dare un proprio seguito nella revisione di parte dell’impianto sanzionatorio contro Mosca.
Paolo Quercia
9 maggio 2016
Pubblicato sulla rivista "Il Nodo di Gordio"