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Evoluzione della presenza ed attività dell’ISIS in Turchia nel corso del 2015 ed il reshuffling siriano dopo l’intervento russo
 
Nei primi 5 anni di guerra civile in Siria l’ISIS ha radicato nel territorio turco un’importante presenza operativa, approfittando del regime di compiacenza e tolleranza concesso dal governo di Ankara almeno fino a tutto il 2013. In questo modo lo Stato islamico ha potuto non solo usufruire di una fondamentale via di rifornimento attraverso il territorio turco di uomini ed armi ma anche di un cospicuo bacino di reclutamento in Turchia. Si stima che siano almeno 3.000 i combattenti turchi nelle file dell’ISIS, di cui – dato particolarmente interessante – oltre la metà sarebbero appartenenti all’etnia curda. Con il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Ankara ed ISIS, conseguenza del progressivo cambio di strategia avviato agli inizi del 2015, è ragionevole ritenere che una parte della rete di supporto logistico dell’ISIS in Turchia si è gradualmente trasformata – o forse più correttamente potremmo dire ha prodotto per gemmazione – una rete di cellule terroristiche, con l’obiettivo di minacciare e, all’occorrenza, di colpire la Turchia con attentati terroristici. Difatti, fino alla metà del 2015, l’ISIS, pur ritenendo Erdogan un apostata, non aveva incluso la Turchia tra i suoi obiettivi strategici, astenendosi dal compiere attacchi terroristici significativi in territorio turco e concentrandosi sulle attività di reclutamento, logistica e finanziamento. Nella strategia dell’ISIS la “conquista” della Turchia non sarebbe dovuta avvenire attraverso azioni militari ma attraverso un’opera di progressiva conversione della popolazione. Dall’estate del 2015 sembrerebbe che si è entrati in una nuova fase dell’ambiguo rapporto tra Turchia ed ISIS con due gravi attentati in territorio turco che il governo attribuisce all’ISIS: quello di luglio a Suruc, al confine tra Siria e Turchia, (32 vittime) e quello della stazione centrale di Ankara con oltre 100 morti, entrambi causati da attentatori suicidi diretti a colpire l’opposizione politica all’AKP ed in particolare il partito della minoranza curda. A ciò si aggiunge il fatto che l’ISIS ha apparentemente avviato anche una campagna di esecuzione di propri oppositori siriani rifugiati in Turchia, come sembrerebbe essere il caso della decapitazione di due oppositori nella città di confine Şanlıurfa/al-Ruha/ Riha. La più importante operazione sinora registrata contro l’ISIS  è stata quella di Diyabakir, città a grande maggioranza curda, in cui a pochi giorni dal voto si è avuta un’operazione antiterrorismo contro una cellula dell’ISIS formata da decine di persone e che ha visto la morte di due agenti di polizia turca a seguito dell’esplosione di un IED, dopo uno scontro a fuoco in cui sono morti 7 terroristi (le cui nazionalità al momento della chiusura di questa prospettiva non sono ancora state comunicate). L’estensione, le capacità e la resilienza della presunta rete terroristica dell’ISIS operante in Turchia sarà verosimilmente messa alla prova nel corso del 2016, anche come in conseguenza delle evoluzioni militari e politiche che potrebbero verificarsi nel teatro siriano.
 
 Il reshuffling siriano dopo l’intervento russo e possibili conseguenze per Ankara nel medio - termine  
 
Il conflitto siriano entrato nel suo quinto anno di attività mostra ormai i segni dell’inutile carneficina, il cui scenario attuale di decomposizione geopolitica produce negative conseguenze non solo per la martoriata popolazione siriana, ma anche per gli stessi paesi contermini e della regione e – dopo la costituzione dello Stato Islamico – riflette le sue negative esternalità anche su scala globale. L’avvio della campagna aerea russa, l’intensificarsi delle forniture di armi da parte di Mosca, il crescente impegno in combattimento di milizie iraniane, il consolidamento dell’ISIS ed il suo outreach globale connesso al fenomeno dei foreign fighter sono tutti indicatori che rappresentano il contesto dei mutamenti geopolitici a cui Ankara ha reagito operando, già da fine 2014 ma con più risolutezza da metà 2015, il reset della propria politica siriana. Il 2015 è stato l’anno in cui la Turchia ha avviato il processo di revisione della sua politica complessiva verso il Medio Oriente e la continuità governativa post elettorale ne favorirà la transizione. Ovviamente le difficoltà di realizzare questi cambiamenti nel corso di un anno elettorale, ne ha pregiudicato l’incisività, ma riteniamo che il cambio strategico di rotta del paese sia già avvenuto, e non sarà invece la conseguenza del risultato elettorale, che ne rappresenta piuttosto la cornice operativa. È importante considerare che questo reset (come più volte anticipato negli Osservatori Strategici del 2014 e commentato in quelli del 2015) non è il frutto di un mutamento della originale ideologia pan-islamista dell’AKP (cosiddetta neo-ottomana), bensì è la necessaria conseguenza del pragmatico adattamento dell’azione di Ankara al mutamento dello scenario strategico in Siria ed in Iraq, nonché al deteriorarsi delle condizioni di sicurezza interna. Essa è dunque in buona parte frutto di un tuning della politica estera turca con l’interesse nazionale al mutare delle condizioni regionali. In particolare, è evidente che Ankara non è più l’unico attore regionale a giocare un ruolo attivo diretto dentro il conflitto siriano, ma deve quanto meno fare i conti con l’upsurge nella presenza sia militare che politico – diplomatica di Russia ed Iran, due dei suoi competitor regionali che sostengono le forze governative e contrastano l’azione militare dei ribelli sunniti. Se il contributo militare di Mosca e Teheran nei primi mesi è servito a consolidare la tenuta del governo siriano evitandone il collasso, l’eventuale protrarsi di questo sforzo nel 2016 sposterebbe l’azione verso le operazioni di “riconquista” delle area del Nord sotto controllo del FSA/al-Nusra/ISIS, ad iniziare dalla città di Aleppo (56 chilometri dal confine turco) che potrebbe finire sotto intenso assedio. Un tale scenario si inquadra in un più ampio dilemma per Ankara del come gestire l’eventuale perdita di territorio di propri attori proxy – quantomeno di quelli ufficiali – nonché la più preoccupante opzione di un eventuale cambio di fronte delle milizie curdo-siriane, che anche esse potrebbero accettare supporto e sostegno da parte di Mosca, ufficializzando lo status di non belligeranza de-facto con il governo di Damasco e dando un loro contributo ad un’offensiva anti-sunnita in cambio della creazione di un ente territoriale autonomo, sul modello KRG. È solo una delle tante ipotesi di sviluppo che è sul tavolo, e che sicuramente produrrà una strategia molo meno assertiva di Ankara nel teatro siriano nel 2016. Interessane notare che per Ankara il primo punto verifica internazionale di questo primo giro di rimescolamento delle carte della partita siriana si è avuto con i colloqui di Vienna del 29 e 30 Ottobre, tenutisi proprio a ridosso delle elezioni generali. In questo contesto, la Turchia ha avuto occasione di dimostrare il suo peso geopolitico entrando nel “quartetto” dei colloqui preliminari che il Segretario di Stato americano ha fatto con i paesi chiave della crisi: Russia, Iran, Turchia e Arabia Saudita, prima di aprire la plenaria allargata del 30 ottobre. E’ una dimostrazione plastica di come la massiccia discesa in campo di Iran e Russia rende ormai impossibile per Ankara continuare ad impersonare solo il ruolo riduttivo di Stato che sostiene alcune delle fazioni della guerriglia anti governativa, obbligandolo a lavorare per un approccio più inclusivo alla soluzione dei problemi del paese, in modo da poter arrivare – se ve ne sarà occasione – ad un più comprensivo accordo politico-diplomatico multilaterale sul futuro assetto del paese; ciò vuol dire uscire dall’approccio settario e preoccuparsi anche di trovare forme di compromesso sugli interessi della minoranza alawita e della minoranza curda. Ciò potrà avvenire tanto più facilmente quanto procedere la progressiva descalation del conflitto (ed Ankara ha importanti strumenti di pressione a disposizione per condizionare tali passaggi, ad iniziare dal controllo di un importante confine). Se i negoziati sulla Siria, avviati con discreto successo a Vienna, si trasformeranno in un processo di pace, la Turchia acquisirà un importante peso al tavolo negoziale e potrebbe diventare il pivot di un compromesso geopolitico tra le 3 grandi potenze regionali, che sembrerebbe inizialmente assumere le forme di un condominio turco – russo – iraniano – su uno Stato che, dal basso, difficilmente potrà essere ricostruito o potrà superare le divisioni settarie esacerbate dopo 5 anni di guerra civile. Ankara, ovviamente, gioca in pole-position per diventare non solo il broker di un accordo di pace ma anche potenza protettrice (con il sostegno saudita) della entità arabo sunnita siriana che potrebbe emergere se il processo di pace in Siria assumerà le forme di una cantonizzazione del paese sul modello di Dayton. Ciò, evidentemente, non è un processo né facile, né imminente in quanto potrà prendere forma solo successivamente alla liquidazione dell’esperienza para-statuale dell’ISIS. In una situazione così fluida Ankara è chiamata a reinventarsi una nuovo ruolo geopolitico in Siria per garantirsi profondità strategica sia nei confronti di Stati concorrenti che degli attori asimmetrici emersi dal conflitto siriano. Ora, la revisione della politica mediorientale e regionale turca passa per il, difficilissimo e ancora non in vista, processo di pacificazione della Siria.

In corso di pubblicazione su Osservatorio Strategico CeMiSS - Prospettiva 2016
 
 

 
 
 
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