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Analisi

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Oltre al petrolio, un altro argomento ha dominato la visita di fine maggio 2013 del presidente del Kenya, Uhru Kenyatta, a Giuba, capitale del neo-indipendente Sud Sudan: la questione dell’azione della Corte penale internazionale (Cpi) in Africa. Il presidente sud-sudanese Salva Kiir ha deciso di cogliere l’occasione per dare particolare risalto alla questione del ruolo del tribunale dell’Aia nelle vicende interne dei paesi africani. Il primo presidente del paese centro-africano, indipendente dal luglio 2011, ha difatti annunciato che il Sud Sudan non accetterà mai la giurisdizione del Tribunale dell’Aia e che unirà le proprie forze con quelle del Kenya per evitare che “i leader politici dei paesi africani continuino ad essere umiliati”. Le parole di Kiir prendevano spunto dalla condizione di “indagato” del presidente kenyota in visita, e dal braccio di ferro che Nairobi ha avviato con il Tribunale penale internazionale dell’Aia per sottrarre alla competenza della Cpi il caso contro Kenyatta, accusato di aver organizzato scontri etnici dopo le elezioni del 2007.

Fa riflettere il fatto che sia proprio il Sud Sudan, l’ultimo stato africano nato grazie al sostegno occidentale per secessione dal regime di Khartoum – il cui presidente Al Bashir è ugualmente accusato dal tribunale dell’Aia di crimini di guerra e genocidio per il conflitto del Darfour – ad allinearsi sulle posizioni anti Cpi in maniera non diversa da quelle del vicino settentrionale. In realtà il numero dei paesi africani che sostengono posizioni critiche nei confronti delle azioni della Corte appare in crescita. Da alcuni anni a questa parte, difatti, ed in particolare proprio dall’avvio del procedimento dell’Aia conto Al Bashir, la stessa Unione africana (Ua) ha preso una chiara posizione contro le accuse della Cpi che coinvolgono capi di stato e di governo dei propri paesi membri, firmatari o meno della Convenzione di Roma del 1980. Nel 2009 l’Ua approvò una dichiarazione in cui invitava i propri membri a non collaborare per l’arresto del presidente del Sudan Al Bashir. Tale posizione politica trasversale anti-Cpi si è ulteriormente rafforzata dopo il caso Kenyatta, accusato di crimini contro l’umanità su una base ancora più fragile di quella del presidente sudanese, in quanto la stessa competenza della Cpi sugli incidenti etnici in Kenya del 2007 si fonda su un’interpretazione estensiva dell’articolo 7 dello Statuto di Roma. L’ampliarsi della possibile base con cui un capo di stato può essere messo sotto accusa all’Aia ha naturalmente portato numerosi paesi africani a serrare le fila e superare significative differenze politiche, etniche e religiose per fare fronte comune contro il rischio di una potenziale estensione dell’ambito d’azione della Cpi.

L’argomento politico difensivo che si è fatto strada nelle capitali di molti paesi africani è quello del “colonialismo della Cpi”, considerata come uno strumento nelle mani dell’Europa – ma all’occorrenza anche di stati non membri che ne rifiutano la competenza, come gli Usa – per tenere sotto pressione il continente africano e condizionarne nel breve periodo i processi di sicurezza e nel lungo periodo le modalità di sviluppo economico. La Cpi viene equiparata nella retorica di un numero sempre maggiore di élite politiche africane a nulla più che uno strumento di “regime change” finanziato dall’Europa e diretto pressoché esclusivamente contro capi di stato e di governo africani e loro concittadini. Inutile far presente che anche la maggioranza delle vittime in difesa dei cui diritti la Cpi si attiva sono anch’essi africani e che la Corte entra in gioco solo per investigare i reati più gravi e solo in caso di impossibilità o voluta latitanza del sistema giudiziario nazionale. La Corte – la cui azione s’inserisce certamente in un quadro estremamente asimmetrico e politicizzato della cosiddetta giustizia internazionale – rischia di divenire un facile bersaglio dei nuovi nazionalismi africani, le cui rivendicazioni appaiono crescere progressivamente con la crescita dello sviluppo economico e del valore strategico del continente.

Dopo l’elezione di Kenyatta nel 2013 a presidente del paese, l’azione della Cpi acquisisce una luce diversa. Non è il leader di un classico “rogue state” isolato e debole ad essere indagato per crimini di guerra, bensì il presidente di una delle più promettenti tigri africane, un’economia di mercato in ampia crescita economica, uno “hub” finanziario internazionale; ma anche una potenza regionale, in ottimi rapporti con l’Europa e con gli Usa, impegnata nella lotta ad al Qaeda nel Corno d’Africa nonché uno degli attori chiave del processo di stabilizzazione della vicina Somalia. Un’accusa che è tanto imbarazzante per il presidente del Kenya quanto lo è per l’Occidente.

Il Kenya ha minacciato, con voto del parlamento, l’uscita dalla Convenzione di Roma e poi ha cercato di ottenere una sospensione del processo presso la Cpi dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, agendo in funzione dell’articolo 16 dello statuto della Corte. Tale articolo rimanda al Consiglio la possibilità di interrompere l’azione della Corte attraverso una risoluzione presa sotto il capitolo VII della Carta nel caso sia a repentaglio la pace o la sicurezza internazionale. Avendo il Consiglio rifiutato di prendere in considerazione tale ipotesi, l’Unione africana ha ripreso la propria iniziativa politica contro l’azione della Cpi, mettendo all’ordine del giorno una risoluzione che esorta la Corte a chiudere il caso aperto contro il presidente del Kenya trasferendolo ad un tribunale locale. pq.

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