analisi:
IL RUOLO DELLA TURCHIA NEL MEDITERRANEO ORIENTALE DOPO L'IMPLOSIONE DELLE PRIMAVERE ARABE E LE PROTESTE DI PIAZZA TAKSIM
giugno 2013,
Osservatorio Strategico

Continua a crescere l’arco di crisi e di instabilità attorno al Mediterraneo Orientale rendendo sempre più complessa la posizione geopolitica della Turchia. Il peggioramento nell’Estero Vicino turco produce per l’Alleanza Atlantica, di riflesso, un non trascurabile aumento dei rischi per la sicurezza nel medio e breve termine. Inoltre, la crescente instabilità del quadrante levantino del Mediterraneo contribuisce a spezzare la continuità politica tra Europa Sud Orientale e Mediterraneo Orientale, incastrando quest’ultima nella crescente instabilità che appare essere il risultato della complessa e contraddittoria stagione della primavera araba. Il colpo di stato in Egitto, forte di un ampio consenso popolare, ha portato alla momentanea conclusione della breve esperienza di governo della Fratellanza Mussulmana, sulla cui azione politica e sociale molti ad Ankara confidavano per rafforzare le posizioni turche nella regione; anche la progressiva involuzione del conflitto siriano in una guerra civile ormai priva di senso e che sembra non essere in grado di portare alla caduta di Bashar al-Assad ma solo di aumentare la radicalizzazione del conflitto e balcanizzare il paese, rappresenta uno dei peggiori scenari possibili per Ankara. Se le cose non cambieranno, la Turchia non solo non avrà il regime change atteso a Damasco, ma dovrà fare i conti anche con un failed state siriano nel Nord dove, di fatto, non sarà possibile per lungo tempo ricostruire la sovranità disgregatasi. La situazione di difficoltà della Turchia potrebbe aumentare in funzione del crescente antagonismo con l’Iran sciita e dell’ambigua competizione/cooperazione con i paesi sunniti della penisola arabica e del Golfo sempre più attratti da un nuovo great game neo-Ottomanno per l’influenza nel Vicino e Medio Oriente. Una competizione che avrebbe come scenario tattico l’aumento delle forze centrifughe di territori e popolazioni causato dal contrasto tra la mobilizzazione globale delle masse e indebolimento del potere degli Stati. La Turchia ambisce a svolgere un ruolo determinante in queste aree ma ci sono, tuttavia, molti segnali che indicano che le capacità internazionali e gli assetti di politica estera di Ankara non sono ancora maturi per consentirle di giocare un ruolo egemone solitario in una regione che dovesse implodere. Bisogna tener presente che per decenni la politica estera di Ankara è stata dominata prevalentemente dall’isolazionismo kemalista prima e, successivamente, dagli schemi rigidi della guerra fredda, prevalentemente basati su una politica di isolazionismo nella sua turchicità e nel suo atlantismo, confrontandosi a distanza con un vicinato sostanzialmente separato e geo-politicamente ostile.
Dopo l’abbandono delle ambizioni panturaniche degli anni novanta e dopo aver patito le conseguenze geopolitiche degli attacchi dell’11 settembre e della guerra in Iraq per buona parte dello scorso decennio, la Turchia ha solo recentemente riscoperto una vocazione globale alle relazioni internazionali. La prima fase di questa rinascita è stata rappresentata dal cosiddetto neo-ottomanesimo, un tentativo di includere i paesi vicini della Turchia in una politica di buon vicinato e di riduzione dei contrasti regionali che facesse leva sul comune substrato islamico, rafforzato da una robusta cooperazione economica. Questa politica è fallita quando i regimi dell’estero vicino turco sono stati scossi dalle rivolte della primavera araba, dimostrando tutte le loro debolezze e la loro scarsa legittimità. Ritenendo irreversibile il processo di regime change innescato dalla primavera araba, il governo dell’AKP ha accentuato i suoi messaggi diretti verso le masse islamiche, tentando di ricoprire, finalmente, quel ruolo che gli Stati Uniti avevano a lungo chiesto ad Ankara di assumere: quello di divenire un catalizzatore del cambiamento democratico nella regione islamica del Grande Medio Oriente. Con il cambio di politica di Ankara – che non aveva appoggiato l’onda verde iraniana né le fasi iniziali della rivolta anti Gheddafi in Libia – viene tolto il supporto politico – economico a quei regimi che si rifiutano (o non sono in grado) di spingere il processo di riforma fino al punto di giungere a libere e democratiche elezioni. È una grande rottura per la tradizionale politica turca di sostegno allo status quo nella regione, avviando una nuova ed inedita fase di promozione dei cambi di regime, facendo leva sulle masse che protestano contro i governi, prendendo posto al fianco della Ummah islamica contro gli Stati autoritari. Anche se la situazione appare essere ancora molto fluida e tutto può accadere, specialmente nello scenario siriano, all’inizio di settembre 2013, è difficile dire che questa rischiosa politica possa essere giudicata di successo. Ankara si trova ora a riflettere sul fatto che un conto è essere un modello astratto per ispirare la trasformazione socio politica delle società islamiche contemporanee, un conto è possedere le capacità di guidare o anche determinare tali cambiamenti, specialmente senza il supporto attivo dell’Occidente. Appare sempre più difficile per la Turchia riuscire a giocare il ruolo di potenza regionale in un vuoto caotico, in cui il soft power turco sembra non essere né sufficiente ad abbattere i vecchi regimi autoritari post coloniali, né a modellare i nuovi spazi sociali che emergono dopo la caduta degli autocrati. Al tempo stesso, anche il modello turco sembra sperimentare nuove ed imprevedibili forme di dissenso di massa che sfidano la monoliticità del consenso dell’AKP. Da questo scenario un rischio appare emergere per la Turchia che potrebbe mettere in dubbio la sua capacità di assumere un ruolo di rilievo nel Mediterraneo Orientale: nel breve e medio periodo il punto di arrivo della caduta dei regimi arabi secolari e socialisti porterà a caos, anarchia e alla polverizzazione delle sovranità nella regione. Naturalmente, da questa pars destruens del vecchio ordine post-coloniale potrebbe emergere una nuova stagione di opportunità politiche per Ankara. Ma è difficile che ciò si verifichi in un futuro prossimo. Ma quando ciò avverrà, nuovi attori e potenze emergenti saranno attratti nel quadrante del mediterraneo orientale a ricomporre il puzzle dei rapporti di potere, ravvivando vecchie competizioni e creando nuovi scontri d’interessi. C’è la sensazione che la Turchia sia entrata nel “gioco” delle primavere arabe troppo presto, contribuendo a sacrificare anche alcune delle proprie residue ambizioni europee. La deriva del Mediterraneo Orientale nella polveriera mediorientale separerà ulteriormente questa regione di confine dall’Europa, sciogliendo i legami ancora esistenti tra Europa Sud Orientale e Mediterraneo Orientale. Incrinando con ciò uno dei pilastri principali dell’integrazione europea della Turchia. Per Ankara, il trade-off tra assumere un ruolo di egemonia regionale in un Medio Oriente che va verso un profondo ed atipico processo di redistribuzione del potere (basato su molteplici sub-processi di de-sovranizzazione) o allontanarsene, avanzando verso l’Unione Europea con la costruzione di uno Stato meno vestfaliano e sempre più post-moderno, non è mai stato così ampio ed evidente. È interessante considerare che, se Ankara abbandona un approccio realista alle relazioni internazionali, l’affermarsi di una Turchia più post-moderna o più neo-vestfaliana spinge verso differenti collocazioni geopolitiche la stessa Turchia: più europea nel primo caso, più medio-orientale nel secondo. In un prossimo futuro la multivettorialità della politica estera turca appare divenire sempre più una funzione della multivettorialità della società turca in evoluzione.
Un nuovo fattore nelle dinamiche politiche turche. Verso la nascita di una conflittualità sociale post-moderna?
Tradizionalmente la società turca è profondamente divisa, con numerose contraddizioni, fratture e conflitti e con un forte apparato di rule of law che da sempre presidia e controlla i numerosi conflitti di natura etnica, religiosa e politica e le molteplici divisioni: quella secolaristi/islamisti, quella civili/militari, quella nazionalisti/minoranze nazionali, quella modernisti filo-occidentali/tradizionalisti e quella che vede l’approccio statocentrico confrontarsi con quello liberal-individualista. Ma è apparso subito evidente che le manifestazioni che hanno avuto luogo ad Istanbul e che si sono diffuse in altre città del paese non possono essere inquadrate in nessuna di queste cornici di conflittualità anche se – e ciò aumenta la confusione – alcune di esse sono state “sfiorate” dalle proteste. Ciò ha portato molti giornalisti, esperti e politici ad interpretare le sommesse antigovernative della primavera 2013 con le vecchie categorie socio-politiche della Turchia, commettendo però – in molti casi – un errore di prospettiva. Oltre ai problemi di ordine pubblico e quelli legati alle modalità dell’uso della forza da parte della polizia, dalle proteste di Gezi Park è emersa una nuova frattura sociale del paese, potenzialmente in grado di scompaginare o ridefinire la gerarchia delle dinamiche di conflittualità interne alla Turchia. Quello che è emerso da Gezi Park è sostanzialmente una nuova emergente forma di ribellismo giovanile, prevalentemente depoliticizzato e contraddistinto da un forte carattere post-moderno e soprattutto da una base di protesta animata prevalentemente dalle generazioni degli anni ottanta e novanta: secondo le indagini svolte da un’università turca, la maggioranza dei partecipanti alle proteste, circa il 40%, ha meno di 25 anni. La maggioranza di essi non ha mai partecipato ad una protesta di piazza ne è mai stata vicina ad un partito d’opposizione. I grandi attori tradizionali della conflittualità stato-società e gli oppositori al governo islamista (gli alaviti, i curdi, l’opposizione del CHP, i sindacati, l’estrema destra) erano sostanzialmente assenti o marginalmente toccati dalle proteste e scarsamente rilevanti. Le forze armate non hanno avuto alcun ruolo, neanche verbale, negli avvenimenti. Paradossalmente è più facile dire chi non c’era piuttosto che chi c’era nelle vie e nelle piazze di Istanbul. Sicuramente c’era, con un ruolo egemone, la generazione degli anni novanta. Essa è, in buona parte, la generazione del boom economico, quella che non ha conosciuto le ristrettezze dell’economia turca del passato, le drastiche limitazioni della libertà di espressione ed i colpi di stato militari. È una generazione parzialmente immersa nella post-modernità, che non si riconosce più né nello Stato turco né nei paradigmi prevalenti nella sua società (di cui esso è, ovviamente, espressione). È una generazione che chiede maggiori libertà, specialmente nella sfera immateriale degli “stili di vita” e che pone il problema della libertà in termini assoluti ed individuali e non progressivi e comunitari. Sono sostanzialmente incuranti del fatto che proprio loro sono la generazione che maggiormente può cogliere i frutti delle trasformazioni economiche e sociali prodotte dal decennio islamista turco e che le libertà di cui esse godono sono sostanzialmente maggiori rispetto al passato, grazie al fatto che proprio l’AKP ha contribuito in maniera rilevante a ridurre i caratteri di illiberalismo del sistema statale turco. Certamente non lo ha fatto per aumentare gli spazi di libertà individuali o rendere più libertari gli stili di vita, ma piuttosto per accrescere i margini di manovra dell’Islam politico e per rilanciare economicamente il paese. Resta il fatto che, per questa generazione, il benchmark delle proprie libertà non è più di carattere storico ma piuttosto di carattere geografico. Esse oramai le paragonano non più con quelle dei propri genitori in Turchia, ma piuttosto con quelle dei propri coetanei a Londra o a Madrid. A Istanbul, alleati nella protesta vi erano studenti universitari, semplici cittadini, membri delle associazione LBGT, gruppi anarchici ma anche gruppi organizzati di hooligans delle tre principali squadre di calcio della città. Simbolico del carattere meta-identitario e destrutturato della protesta è il fatto che tifosi rivali delle squadre di calcio del Besiktas, del Galatassaray e del Fenerbahce hanno volontariamente unito le proprie forze per combattere la polizia, accorrendo all’appello lanciato dal gruppo anarchico di tifosi del Besiktas “Çarşi”. Quest’anima innovativa della protesta ha in parte allontanato quegli attori tradizionali della conflittualità della “vecchia Turchia” dall’assumere un ruolo attivo, anche quando avevano motivi propri di opposizione al governo dell’AKP. Nonostante che molti dei partecipanti alle proteste abbiano indicato nell’eccessiva repressione della polizia uno dei motivi principali del loro coinvolgimento in piazza, ed abbiano indicato in Erdogan il responsabile politico, è piuttosto corretto concordare sul fatto che questo tipo di protesta (e di violenze) è sostanzialmente apolitica e sarebbe potuta esplodere innescata da ogni altro tipo di decisione amministrativa, contro qualsiasi altro partito politico tradizionale turco e contro ogni altro primo ministro. La rudezza della polizia turca e la sua determinazione nel non consentire l’occupazione violenta delle principali arterie di una metropoli di 15 milioni di abitanti come Istanbul è una prassi consolidata nelle politiche di gestione dell’ordine pubblico in Turchia che non è stata introdotto da Erdogan. Coloro che hanno cercato, superficialmente, di interpretare le proteste di Gezi Park come un conflitto tra due Turchie, una secolare ed una islamista, hanno sostanzialmente mancato di cogliere il carattere peculiare ed innovativo di questa protesta. Le cui linee di conflitto non seguono quelle tradizionali della Turchia moderna (kemalista, post-kemalista o islamista), ma piuttosto le intersecano e le confondono separando le anime ancora moderniste del paese da quelle maggiormente esposte alla post-modernità. L’emersione violenta di una nuova conflittualità trasversale in Turchia è di un certo interesse per lo studio dell’evoluzione del panorama politico interno del paese, specialmente in quanto rende sempre più difficile all’AKP quadrare il cerchio della complessa compatibilità tra il capitalismo liberale ed un moderato conservatorismo sociale di stampo islamista. L’aver unito queste due anime è stata la forza dell’AKP nello scorso decennio, ma appare sempre più difficile per la società turca continuare ad assorbire contemporaneamente dosi crescenti di liberalismo ed islamismo senza produrre segnali contraddittori di rigetto. Tuttavia, il carattere apolitico e disomogeneo della protesta turca di Gezi Park, tenuta assieme dalla brutalità dell’intervento della polizia e da tentativi di creare un’agenda meta-identitaria, difficilmente potrà produrre significative conseguenze sulla politica turca e – specialmente – sulle elezioni presidenziali del 2014. I sondaggi confermano che, anche durante il picco della protesta e della repressione, il consenso per Erdogan è rimasto significativamente sopra il 50% della pubblica opinione. Ancorché perda diversi punti del suo consenso personale – che aveva superato il 60% - egli resta il leader politico di gran lunga più forte nel paese. Anche l’AKP cede, nei sondaggi, qualche punto rispetto al consenso di alcuni mesi fa, restando il partito di maggioranza relativa. C’è da osservare, tuttavia, che da un paio di anni a questa parte, pressoché tutti i partiti turchi tradizionali hanno perso punti nei recenti sondaggi elettorali, mentre si registra un forte aumento di coloro che non esprimono alcuna preferenza di partito, dichiarando la propria astensione, il proprio voto di protesta o – soprattutto – la propria indecisione. Una conferma della natura delle nuove fratture sociali che emergono in Turchia si trova nel fatto che nei sondaggi cresce significativamente l’area della non dichiarazione di voto (astenuti, indecisi, voto di protesta ecc.) ai partiti tradizionali, che non è mai stata cosi forte: nel giugno 2013, essa ha raggiunto il 30% degli intervistati, mentre quasi il 40% sente il bisogno della creazione di nuovi partiti. Stando così le cose, sarà difficile sconfiggere la posizione di egemonia politica dell’AKP nel paese, almeno nel breve periodo. Qualcuno ha voluto mettere in dubbio la leadership di Erdogan sull’AKP dopo i fatti di Gezi Park, il che appare essere un po’ una forzatura. Sembra invece più credibile vedervi l’esistenza di una tattica del partito di maggioranza assoluta di diversificazione delle proprie posizioni, non appiattendosi sulla linea di scontro intransigente con la piazza sostenuto, anche con una certa arroganza, da parte del premier. Ad ogni modo, c’è da tenere conto che la Turchia va – per la prima volta – verso un modello di elezione diretta del presidente ed i cambiamenti istituzionali, con le prime elezioni presidenziali previste per il 2014, potrebbero avvantaggiare il decisionismo di Erdogan, anche nel caso di una crescente divisione del partito sul suo operato. Per il momento, il tandem con Gul sembra essere più impostato su logiche alla Putin-Mededev, piuttosto che su un reale antagonismo interno.
Quale il peso del fattore estero nelle elezioni del 2014?
Non è da sottovalutare, tuttavia, un certo malcontento per la politica estera dell’AKP che a molti osservatori appare essere ormai troppo sbilanciata in un contesto regionale instabile e volatile, molto diverso da quello di appena due anni fa e soprattutto che non si indirizza verso gli scenari strategici immaginati da Ankara. Il governo “amico” della Fratellanza Mussulmana (il presidente egiziano Morsi aveva partecipato all’assemblea nazionale dell’AKP nel 2012) che aveva assunto il potere nel dopo Mubarak è stato spazzato via da manifestazioni di piazza e da un colpo di stato militare (definito da Erdogan “state terrorism”). Ankara ha condannato come illegittimo il nuovo governo, congelato le relazioni diplomatiche e ritirato il proprio ambasciatore nel paese. Il riconoscimento del governo militare da parte della Lega Araba ha però messo la Turchia in una certa solitudine nel condannare il colpo di stato. Un Egitto indebolito ma controllato da una forza politica islamista in qualche modo riconducibile al filone dell’AKP, avrebbe potuto rappresentare un assetto geopolitico importante per la Turchia, specialmente sul dossier arabo – israeliano e per lo scenario siriano. Sicuramente un Egitto islamista avrebbe avuto un posto nel “nuovo ordine” mediorientale immaginato da Ankara per il Medio Oriente post primavere-arabe; uno militarista – e maggiormente nazionalista – rappresenta al contrario un potenziale “incubo del passato” per gli islamisti turchi.
In Siria, dopo due anni e mezzo di una sanguinosa guerra civile, Bashar al-Assad ancora resiste, mentre buona parte del paese è oramai divenuta una zona priva di controllo alcuno ove imperversano bande della più diversa estrazione ed ideologia. Anche qui l’azione di Ankara appare essere andata oltre a quanto sia realisticamente possibile, allontanandosi anche dalle posizioni dei propri alleati, anche i più volenterosi, Stati Uniti inclusi, e rischiando di mettere a repentaglio la propria sicurezza nazionale. Gli sviluppi siriani hanno ulteriormente rafforzato il peso del fattore kurdo nella regione ed, in qualche modo, anche il valore del cosiddetto processo di risoluzione della questione curda su cui Erdogan si giocherà buona parte del proprio futuro politico. Gli sviluppi della guerra civile siriana hanno trasformato il PYD – il partito kurdo che controlla militarmente buona parte del Kurdistan siriano, affiliato in passato al PKK – in un attore da cui difficilmente si potrà prescindere. Il leader del PYD, Salih Muslim, ha recentemente visitato Ankara, inaspettatamente invitato dal Ministro degli Affari Esteri turco Davutoglu. Questo miglioramento nelle relazioni con il principale partito curdo siriano potrebbe essere interpretato anche come una contromisura tattica che esprime un segnale di progressiva perdita di fiducia da parte turca nella possibilità dell’opposizione sunnita di riuscire ad estromettere Bashar al-Assad dal potere in tempi brevi.
Il governo turco ha meno di un anno di tempo per dimostrare alla propria opinione pubblica che il lungo mandato dell’AKP non ha comportato un peggioramento della sicurezza nazionale, un tema ultra sensibile in un paese in cui la maggioranza della popolazione ritiene l’unità nazionale essere costantemente in pericolo. O quantomeno per avvalorare la tesi che, se ciò è avvenuto, esso non è stato un prodotto della, sperimentale, nuova politica estera turca. In questo contesto, il processo di risoluzione della questione curda giocherà un ruolo sempre più centrale.
Dopo l’abbandono delle ambizioni panturaniche degli anni novanta e dopo aver patito le conseguenze geopolitiche degli attacchi dell’11 settembre e della guerra in Iraq per buona parte dello scorso decennio, la Turchia ha solo recentemente riscoperto una vocazione globale alle relazioni internazionali. La prima fase di questa rinascita è stata rappresentata dal cosiddetto neo-ottomanesimo, un tentativo di includere i paesi vicini della Turchia in una politica di buon vicinato e di riduzione dei contrasti regionali che facesse leva sul comune substrato islamico, rafforzato da una robusta cooperazione economica. Questa politica è fallita quando i regimi dell’estero vicino turco sono stati scossi dalle rivolte della primavera araba, dimostrando tutte le loro debolezze e la loro scarsa legittimità. Ritenendo irreversibile il processo di regime change innescato dalla primavera araba, il governo dell’AKP ha accentuato i suoi messaggi diretti verso le masse islamiche, tentando di ricoprire, finalmente, quel ruolo che gli Stati Uniti avevano a lungo chiesto ad Ankara di assumere: quello di divenire un catalizzatore del cambiamento democratico nella regione islamica del Grande Medio Oriente. Con il cambio di politica di Ankara – che non aveva appoggiato l’onda verde iraniana né le fasi iniziali della rivolta anti Gheddafi in Libia – viene tolto il supporto politico – economico a quei regimi che si rifiutano (o non sono in grado) di spingere il processo di riforma fino al punto di giungere a libere e democratiche elezioni. È una grande rottura per la tradizionale politica turca di sostegno allo status quo nella regione, avviando una nuova ed inedita fase di promozione dei cambi di regime, facendo leva sulle masse che protestano contro i governi, prendendo posto al fianco della Ummah islamica contro gli Stati autoritari. Anche se la situazione appare essere ancora molto fluida e tutto può accadere, specialmente nello scenario siriano, all’inizio di settembre 2013, è difficile dire che questa rischiosa politica possa essere giudicata di successo. Ankara si trova ora a riflettere sul fatto che un conto è essere un modello astratto per ispirare la trasformazione socio politica delle società islamiche contemporanee, un conto è possedere le capacità di guidare o anche determinare tali cambiamenti, specialmente senza il supporto attivo dell’Occidente. Appare sempre più difficile per la Turchia riuscire a giocare il ruolo di potenza regionale in un vuoto caotico, in cui il soft power turco sembra non essere né sufficiente ad abbattere i vecchi regimi autoritari post coloniali, né a modellare i nuovi spazi sociali che emergono dopo la caduta degli autocrati. Al tempo stesso, anche il modello turco sembra sperimentare nuove ed imprevedibili forme di dissenso di massa che sfidano la monoliticità del consenso dell’AKP. Da questo scenario un rischio appare emergere per la Turchia che potrebbe mettere in dubbio la sua capacità di assumere un ruolo di rilievo nel Mediterraneo Orientale: nel breve e medio periodo il punto di arrivo della caduta dei regimi arabi secolari e socialisti porterà a caos, anarchia e alla polverizzazione delle sovranità nella regione. Naturalmente, da questa pars destruens del vecchio ordine post-coloniale potrebbe emergere una nuova stagione di opportunità politiche per Ankara. Ma è difficile che ciò si verifichi in un futuro prossimo. Ma quando ciò avverrà, nuovi attori e potenze emergenti saranno attratti nel quadrante del mediterraneo orientale a ricomporre il puzzle dei rapporti di potere, ravvivando vecchie competizioni e creando nuovi scontri d’interessi. C’è la sensazione che la Turchia sia entrata nel “gioco” delle primavere arabe troppo presto, contribuendo a sacrificare anche alcune delle proprie residue ambizioni europee. La deriva del Mediterraneo Orientale nella polveriera mediorientale separerà ulteriormente questa regione di confine dall’Europa, sciogliendo i legami ancora esistenti tra Europa Sud Orientale e Mediterraneo Orientale. Incrinando con ciò uno dei pilastri principali dell’integrazione europea della Turchia. Per Ankara, il trade-off tra assumere un ruolo di egemonia regionale in un Medio Oriente che va verso un profondo ed atipico processo di redistribuzione del potere (basato su molteplici sub-processi di de-sovranizzazione) o allontanarsene, avanzando verso l’Unione Europea con la costruzione di uno Stato meno vestfaliano e sempre più post-moderno, non è mai stato così ampio ed evidente. È interessante considerare che, se Ankara abbandona un approccio realista alle relazioni internazionali, l’affermarsi di una Turchia più post-moderna o più neo-vestfaliana spinge verso differenti collocazioni geopolitiche la stessa Turchia: più europea nel primo caso, più medio-orientale nel secondo. In un prossimo futuro la multivettorialità della politica estera turca appare divenire sempre più una funzione della multivettorialità della società turca in evoluzione.
Un nuovo fattore nelle dinamiche politiche turche. Verso la nascita di una conflittualità sociale post-moderna?
Tradizionalmente la società turca è profondamente divisa, con numerose contraddizioni, fratture e conflitti e con un forte apparato di rule of law che da sempre presidia e controlla i numerosi conflitti di natura etnica, religiosa e politica e le molteplici divisioni: quella secolaristi/islamisti, quella civili/militari, quella nazionalisti/minoranze nazionali, quella modernisti filo-occidentali/tradizionalisti e quella che vede l’approccio statocentrico confrontarsi con quello liberal-individualista. Ma è apparso subito evidente che le manifestazioni che hanno avuto luogo ad Istanbul e che si sono diffuse in altre città del paese non possono essere inquadrate in nessuna di queste cornici di conflittualità anche se – e ciò aumenta la confusione – alcune di esse sono state “sfiorate” dalle proteste. Ciò ha portato molti giornalisti, esperti e politici ad interpretare le sommesse antigovernative della primavera 2013 con le vecchie categorie socio-politiche della Turchia, commettendo però – in molti casi – un errore di prospettiva. Oltre ai problemi di ordine pubblico e quelli legati alle modalità dell’uso della forza da parte della polizia, dalle proteste di Gezi Park è emersa una nuova frattura sociale del paese, potenzialmente in grado di scompaginare o ridefinire la gerarchia delle dinamiche di conflittualità interne alla Turchia. Quello che è emerso da Gezi Park è sostanzialmente una nuova emergente forma di ribellismo giovanile, prevalentemente depoliticizzato e contraddistinto da un forte carattere post-moderno e soprattutto da una base di protesta animata prevalentemente dalle generazioni degli anni ottanta e novanta: secondo le indagini svolte da un’università turca, la maggioranza dei partecipanti alle proteste, circa il 40%, ha meno di 25 anni. La maggioranza di essi non ha mai partecipato ad una protesta di piazza ne è mai stata vicina ad un partito d’opposizione. I grandi attori tradizionali della conflittualità stato-società e gli oppositori al governo islamista (gli alaviti, i curdi, l’opposizione del CHP, i sindacati, l’estrema destra) erano sostanzialmente assenti o marginalmente toccati dalle proteste e scarsamente rilevanti. Le forze armate non hanno avuto alcun ruolo, neanche verbale, negli avvenimenti. Paradossalmente è più facile dire chi non c’era piuttosto che chi c’era nelle vie e nelle piazze di Istanbul. Sicuramente c’era, con un ruolo egemone, la generazione degli anni novanta. Essa è, in buona parte, la generazione del boom economico, quella che non ha conosciuto le ristrettezze dell’economia turca del passato, le drastiche limitazioni della libertà di espressione ed i colpi di stato militari. È una generazione parzialmente immersa nella post-modernità, che non si riconosce più né nello Stato turco né nei paradigmi prevalenti nella sua società (di cui esso è, ovviamente, espressione). È una generazione che chiede maggiori libertà, specialmente nella sfera immateriale degli “stili di vita” e che pone il problema della libertà in termini assoluti ed individuali e non progressivi e comunitari. Sono sostanzialmente incuranti del fatto che proprio loro sono la generazione che maggiormente può cogliere i frutti delle trasformazioni economiche e sociali prodotte dal decennio islamista turco e che le libertà di cui esse godono sono sostanzialmente maggiori rispetto al passato, grazie al fatto che proprio l’AKP ha contribuito in maniera rilevante a ridurre i caratteri di illiberalismo del sistema statale turco. Certamente non lo ha fatto per aumentare gli spazi di libertà individuali o rendere più libertari gli stili di vita, ma piuttosto per accrescere i margini di manovra dell’Islam politico e per rilanciare economicamente il paese. Resta il fatto che, per questa generazione, il benchmark delle proprie libertà non è più di carattere storico ma piuttosto di carattere geografico. Esse oramai le paragonano non più con quelle dei propri genitori in Turchia, ma piuttosto con quelle dei propri coetanei a Londra o a Madrid. A Istanbul, alleati nella protesta vi erano studenti universitari, semplici cittadini, membri delle associazione LBGT, gruppi anarchici ma anche gruppi organizzati di hooligans delle tre principali squadre di calcio della città. Simbolico del carattere meta-identitario e destrutturato della protesta è il fatto che tifosi rivali delle squadre di calcio del Besiktas, del Galatassaray e del Fenerbahce hanno volontariamente unito le proprie forze per combattere la polizia, accorrendo all’appello lanciato dal gruppo anarchico di tifosi del Besiktas “Çarşi”. Quest’anima innovativa della protesta ha in parte allontanato quegli attori tradizionali della conflittualità della “vecchia Turchia” dall’assumere un ruolo attivo, anche quando avevano motivi propri di opposizione al governo dell’AKP. Nonostante che molti dei partecipanti alle proteste abbiano indicato nell’eccessiva repressione della polizia uno dei motivi principali del loro coinvolgimento in piazza, ed abbiano indicato in Erdogan il responsabile politico, è piuttosto corretto concordare sul fatto che questo tipo di protesta (e di violenze) è sostanzialmente apolitica e sarebbe potuta esplodere innescata da ogni altro tipo di decisione amministrativa, contro qualsiasi altro partito politico tradizionale turco e contro ogni altro primo ministro. La rudezza della polizia turca e la sua determinazione nel non consentire l’occupazione violenta delle principali arterie di una metropoli di 15 milioni di abitanti come Istanbul è una prassi consolidata nelle politiche di gestione dell’ordine pubblico in Turchia che non è stata introdotto da Erdogan. Coloro che hanno cercato, superficialmente, di interpretare le proteste di Gezi Park come un conflitto tra due Turchie, una secolare ed una islamista, hanno sostanzialmente mancato di cogliere il carattere peculiare ed innovativo di questa protesta. Le cui linee di conflitto non seguono quelle tradizionali della Turchia moderna (kemalista, post-kemalista o islamista), ma piuttosto le intersecano e le confondono separando le anime ancora moderniste del paese da quelle maggiormente esposte alla post-modernità. L’emersione violenta di una nuova conflittualità trasversale in Turchia è di un certo interesse per lo studio dell’evoluzione del panorama politico interno del paese, specialmente in quanto rende sempre più difficile all’AKP quadrare il cerchio della complessa compatibilità tra il capitalismo liberale ed un moderato conservatorismo sociale di stampo islamista. L’aver unito queste due anime è stata la forza dell’AKP nello scorso decennio, ma appare sempre più difficile per la società turca continuare ad assorbire contemporaneamente dosi crescenti di liberalismo ed islamismo senza produrre segnali contraddittori di rigetto. Tuttavia, il carattere apolitico e disomogeneo della protesta turca di Gezi Park, tenuta assieme dalla brutalità dell’intervento della polizia e da tentativi di creare un’agenda meta-identitaria, difficilmente potrà produrre significative conseguenze sulla politica turca e – specialmente – sulle elezioni presidenziali del 2014. I sondaggi confermano che, anche durante il picco della protesta e della repressione, il consenso per Erdogan è rimasto significativamente sopra il 50% della pubblica opinione. Ancorché perda diversi punti del suo consenso personale – che aveva superato il 60% - egli resta il leader politico di gran lunga più forte nel paese. Anche l’AKP cede, nei sondaggi, qualche punto rispetto al consenso di alcuni mesi fa, restando il partito di maggioranza relativa. C’è da osservare, tuttavia, che da un paio di anni a questa parte, pressoché tutti i partiti turchi tradizionali hanno perso punti nei recenti sondaggi elettorali, mentre si registra un forte aumento di coloro che non esprimono alcuna preferenza di partito, dichiarando la propria astensione, il proprio voto di protesta o – soprattutto – la propria indecisione. Una conferma della natura delle nuove fratture sociali che emergono in Turchia si trova nel fatto che nei sondaggi cresce significativamente l’area della non dichiarazione di voto (astenuti, indecisi, voto di protesta ecc.) ai partiti tradizionali, che non è mai stata cosi forte: nel giugno 2013, essa ha raggiunto il 30% degli intervistati, mentre quasi il 40% sente il bisogno della creazione di nuovi partiti. Stando così le cose, sarà difficile sconfiggere la posizione di egemonia politica dell’AKP nel paese, almeno nel breve periodo. Qualcuno ha voluto mettere in dubbio la leadership di Erdogan sull’AKP dopo i fatti di Gezi Park, il che appare essere un po’ una forzatura. Sembra invece più credibile vedervi l’esistenza di una tattica del partito di maggioranza assoluta di diversificazione delle proprie posizioni, non appiattendosi sulla linea di scontro intransigente con la piazza sostenuto, anche con una certa arroganza, da parte del premier. Ad ogni modo, c’è da tenere conto che la Turchia va – per la prima volta – verso un modello di elezione diretta del presidente ed i cambiamenti istituzionali, con le prime elezioni presidenziali previste per il 2014, potrebbero avvantaggiare il decisionismo di Erdogan, anche nel caso di una crescente divisione del partito sul suo operato. Per il momento, il tandem con Gul sembra essere più impostato su logiche alla Putin-Mededev, piuttosto che su un reale antagonismo interno.
Quale il peso del fattore estero nelle elezioni del 2014?
Non è da sottovalutare, tuttavia, un certo malcontento per la politica estera dell’AKP che a molti osservatori appare essere ormai troppo sbilanciata in un contesto regionale instabile e volatile, molto diverso da quello di appena due anni fa e soprattutto che non si indirizza verso gli scenari strategici immaginati da Ankara. Il governo “amico” della Fratellanza Mussulmana (il presidente egiziano Morsi aveva partecipato all’assemblea nazionale dell’AKP nel 2012) che aveva assunto il potere nel dopo Mubarak è stato spazzato via da manifestazioni di piazza e da un colpo di stato militare (definito da Erdogan “state terrorism”). Ankara ha condannato come illegittimo il nuovo governo, congelato le relazioni diplomatiche e ritirato il proprio ambasciatore nel paese. Il riconoscimento del governo militare da parte della Lega Araba ha però messo la Turchia in una certa solitudine nel condannare il colpo di stato. Un Egitto indebolito ma controllato da una forza politica islamista in qualche modo riconducibile al filone dell’AKP, avrebbe potuto rappresentare un assetto geopolitico importante per la Turchia, specialmente sul dossier arabo – israeliano e per lo scenario siriano. Sicuramente un Egitto islamista avrebbe avuto un posto nel “nuovo ordine” mediorientale immaginato da Ankara per il Medio Oriente post primavere-arabe; uno militarista – e maggiormente nazionalista – rappresenta al contrario un potenziale “incubo del passato” per gli islamisti turchi.
In Siria, dopo due anni e mezzo di una sanguinosa guerra civile, Bashar al-Assad ancora resiste, mentre buona parte del paese è oramai divenuta una zona priva di controllo alcuno ove imperversano bande della più diversa estrazione ed ideologia. Anche qui l’azione di Ankara appare essere andata oltre a quanto sia realisticamente possibile, allontanandosi anche dalle posizioni dei propri alleati, anche i più volenterosi, Stati Uniti inclusi, e rischiando di mettere a repentaglio la propria sicurezza nazionale. Gli sviluppi siriani hanno ulteriormente rafforzato il peso del fattore kurdo nella regione ed, in qualche modo, anche il valore del cosiddetto processo di risoluzione della questione curda su cui Erdogan si giocherà buona parte del proprio futuro politico. Gli sviluppi della guerra civile siriana hanno trasformato il PYD – il partito kurdo che controlla militarmente buona parte del Kurdistan siriano, affiliato in passato al PKK – in un attore da cui difficilmente si potrà prescindere. Il leader del PYD, Salih Muslim, ha recentemente visitato Ankara, inaspettatamente invitato dal Ministro degli Affari Esteri turco Davutoglu. Questo miglioramento nelle relazioni con il principale partito curdo siriano potrebbe essere interpretato anche come una contromisura tattica che esprime un segnale di progressiva perdita di fiducia da parte turca nella possibilità dell’opposizione sunnita di riuscire ad estromettere Bashar al-Assad dal potere in tempi brevi.
Il governo turco ha meno di un anno di tempo per dimostrare alla propria opinione pubblica che il lungo mandato dell’AKP non ha comportato un peggioramento della sicurezza nazionale, un tema ultra sensibile in un paese in cui la maggioranza della popolazione ritiene l’unità nazionale essere costantemente in pericolo. O quantomeno per avvalorare la tesi che, se ciò è avvenuto, esso non è stato un prodotto della, sperimentale, nuova politica estera turca. In questo contesto, il processo di risoluzione della questione curda giocherà un ruolo sempre più centrale.