Il paradosso delle elezioni turche, il “ritorno” di Erdogan e l’occhio appannato dell’Occidente
Agli occhi di molti osservatori occidentali avvezzi a commentare di cose turche con le lenti appannate dal punto di vista europeo ed occidentale è sembrato un paradosso vedere il partito di Erdogan tornare a fare il pieno di consensi e prepararsi a varare il sesto governo monocolore islamista dal 2002 ad oggi. Per molti di essi, vedere il partito di Erdogan tornare dopo meno di cinque mesi ad esercitare il pieno potere sul paese, vanificando le proteste di piazza di Gezi Park ed il voto di protesta nelle urne del 7 giugno, non poteva essere il frutto di un consenso popolare. Oltre alla disapprovazione per il risultato, in molti commenti sono affiorati sospetti di brogli e manipolazioni elettorali. Tuttavia, di tali eventi non c’è traccia nel pur critico rapporto preliminare fatto dalla missione elettorale dell’OSCE. Le numerose irregolarità, restrizioni e altre forme di atipicità ricorrenti nel sistema politico turco - che sono ben evidenziate nell’interim report OSCE del 2 novembre – possono essere ritenute invece compatibili con una valutazione complessiva di una consultazione libera e democratica. Difatti, tali valutazioni e criticità sostanzialmente non si discostano da quelle analoghe che furono registrate, sempre dall’OSCE, nelle elezioni del 7 giugno, di cui nessuno pare aver messo in dubbio la democraticità del risultato, che anzi ha visto – per la prima volta l’ingresso in parlamento di un partito pro-curdo. È proprio la rappresentanza della minoranza curda in parlamento ottenuta per la prima volta sia alle elezioni del 7 giugno che del 2 novembre a dare il polso del livello di democrazia del sistema elettorale turco, ricordando che essa è anche il frutto della possibilità, introdotta per la prima volta alle elezioni del 2015, di consentire ai candidati curdi di realizzare la propria campagna elettorale in una lingua che non fosse il turco. Così come bisogna ammettere che molte delle restrizioni ad un esercizio più “europeo” della libertà elettorale sono strutturali del sistema turco a non dipendono dalla componente politica in quanto esse sono insite nelle leggi elettorali e nella stessa Costituzione turca, che risale al periodo del golpe militare e che lo stesso Erdogan ha più volte cercato di modificare in senso meno restrittivo, senza avere la maggioranza per poterlo fare.
Oggettivamente il più importante elemento di degrado del clima elettorale appare essere stata l’atmosfera di tensione e di crescente insicurezza creatasi per via degli attentati, il coprifuoco, le operazioni militari antiterroristiche e la strisciante guerra civile che si è registrata in alcune aree del Sud Est del paese e che ha nei fatti fortemente compresso non solo gli spazi per manifestazioni politiche di massa, ma anche quelli per la libera espressione delle opinioni.
Ciò che molti osservatori occidentali non riescono a spiegarsi – se non ricorrendo all’ipotesi di un contesto elettorale non democratico - come è stato possibile che il partito di governo abbia potuto aumentare il proprio consenso anche in un contesto di peggioramento della maggioranza dei parametri di riferimento del paese. Appare strano che la maggioranza dei turchi non ha punito il proprio governo nonostante nel 2015 sia rallentata la crescita economica, si sia fatto più forte il controllo sulla libertà della stampa, siano aumentati gli scontri settari nella società turca, sia esplosa la questione sociale della mancata integrazione dei rifugiati siriani, le forze dell’ordine non abbiano saputo prevenire numerosi attentati terroristici (tra cui il più grave della storia turca con oltre 100 morti) ed il PKK abbia ripreso massicciamente la propria offensiva militare. Ce ne sarebbe abbastanza per affondare qualunque esecutivo. In realtà bisogna comprendere che la punizione del governo c’era già stata con le elezioni del 7 giugno, quando una parte importante dell’elettorato dell’AKP ha deciso di penalizzare il partito di governo spostando i propri voti su due partiti minori, quello del MHP (coloro che ritenevano che la politica estera di Erdogan mettesse in pericolo la coesione e la sicurezza nazionale turca) e verso l’HDP (coloro che ritenevano Erdogan stesso un pericolo potenziale per la libertà e la democrazia del paese, più coloro che erano attratti dalla possibilità di mandare per la prima volta un partito etnico in parlamento).
La fase di ingovernabilità che ha fatto seguito alle elezioni del 7 giugno – ingovernabilità non assoluta ma relativa, in quanto in buona parte dovuta all’intransigenza sia dell’AKP che dei tre partiti d’opposizione nel non voler dialogare politicamente – ha però rappresentato agli occhi di molti turchi, e soprattutto di quelli che fino al 7 giugno avevano massicciamente votato per l’AKP, un rischio ancora più grave rispetto agli errori politico strategici commessi dal partito di Erdogan: il pericolo che in una fase confusa e piena di sfide sia interne che esterne alla sicurezza nazionale, il paese si fosse trovato, isolato nella sua politica estera, avviluppato in una tenaglia senza precedenti di violenza e di insicurezza interna (PKK e ISIS), con due guerre civili alle porte di case (Siria ed Iraq) con al governo un debole esecutivo di coalizione in conflitto aperto contrasto con il presidente della repubblica (l’unico punto che accomuna difatti tutti e 3 i partiti di opposizione è l’anti-erdoganismo ed il rifiuto delle sue ingerenze extra-costituzionali nella vita del paese). I Turchi, anche quelli che hanno voltato le spalle ad Erdogan, si sono visti sull’orlo del baratro che avrebbe avuto due scenari possibili: L’anarchia ed il rischio di sirianizzazione del paese o un nuovo colpo di stato militare che avrebbe riportato indietro drammaticamente gli spazi di libertà conquistati dal paese, in particolare sotto l’azione dell’AKP. È contro questo scenario che i turchi hanno votato con l’unica opzione possibile: ridare all’AKP nelle saldi mani di Erdogan il controllo della guida del paese. Il voto del 1 novembre 2015, in realtà, non è stato – diversamente dal voto del 7 giugno – un voto politico su come sono andate le cose nella Turchia nel 2014, quanto piuttosto una sorta di referendum e di bilancio sui 15 anni di potere dell’AKP e sulla affidabilità o meno delle alternative politiche.
Osservando i flussi elettorali, è evidente come l’AKP abbia recuperato in questo modo molti dei consensi persi nei confronti dell’HDP, arginando la fuga dal partito di Erdogan dei curdi religiosi e conservatori e di quelli moderati e liberali. Diciotto dei 21 seggi persi dall’HDP sono andati all’AKP, ma indicativo della difficoltà del partito pro curdo dopo l’incredibile successo del giugno scorso è il fatto che quest’ultimo abbia perso voti anche nei confronti del CHP. Anche alcuni segmenti della minoranza curda politicamente impegnata (che è una minoranza della totalità dell’etnica curda) hanno temuto la riapertura di uno scontro tra lo Stato turco ed i curdi. Ciò non solo per effetto della ripresa della ribellione armata del PKK (quasi 200 morti nell’ultimo anno) ma anche per il diffondersi nel cuore delle aree curde, delle ancora più pericolose rivolte armate insurrezionaliste urbane, non direttamente riconducibili al PKK ma a movimenti più o meno ad esso contigui ma distinti. In diversi casi, interi quartieri sono stati sequestrati da gruppi che, armati con armi leggere, hanno isolato le principali strade d’accesso proclamando la costituzione di entità di autogoverno autonomo ed espellendo da esse ogni rappresentante dello Stato turco. Questa tattica di creazione di piccole aree urbane all’interno di città a maggioranza curda in mano ad autoproclamate difese territoriali, ha dato sfogo alla frustrazione delle componenti giovanili più radicali della popolazione curda, ma dall’altro lato hanno impaurito molti curdi moderati che non vedevano la necessità di alzare a tal punto il livello dello scontro nei centri urbani del paese, contro lo Stato, che difatti ha reagito con la consueta risposta altrettanto radicale. Anche grazie a tali risposte muscolari, sia nei confronti del PKK (2.000 combattenti caduti in pochi mesi secondo il governo) che nei confronti delle sommosse armate urbane (vedi operazioni di 8 giorni dell’esercito a Cizre nel settembre 2015) l’AKP è riuscito a recuperare una parte dei voti che nel 7 giugno era andato al partito nazionalista MHP.
In corso di pubblicazione su Osservatorio Strategico Cemiss, Prospettiva 2016