Mentre la Turchia, come conseguenza di una serie di scelte di politica estera massimaliste e radicali si è progressivamente isolata nel contesto regionale cacciandosi in un vero vicolo cieco geopolitico, perdendo coerenza e credibilità della propria azione esterna ed alienandosi sempre più dagli USA, l’Iran ha compiuto un percorso opposto, portando avanti un processo di sdoganamento e reinserimento nella comunità internazionale, aumentando la propria ingerenza in numerosi contesti e addirittura acquisendo una potenziale rilevanza geopolitica positiva per gli stessi USA, come dimostra anche l’accordo sul nucleare, il punto più complesso e rilevante di questo percorso.
È indubbio che l’esplosione del fenomeno ISIS abbia rappresentato un elemento determinante nel favorire il ribaltamento dei ruoli tra Teheran ed Ankara, con la Turchia troppo coinvolta nella gestione del fenomeno ISIS e che non è riuscita ad affrancarsi dalla sua posizione originaria del regime change ad ogni costo, anche quanto il governo di Damasco ha dimostrato un’elevata capacità di resistenza, supporto internazionale e un non trascurabile consenso da una parte della popolazione siriana; in questo stesso contesto, l’Iran ha progressivamente saputo trasformarsi dalla sua posizione di partenza di sostenitore di un regime paria come era quello di Damasco a quella di attore determinante per il contenimento e ridimensionamento dell’ISIS. Da essere parte del problema Teheran ha progressivamente iniziato a ridiventare parte della soluzione, aumentando il suo potere regionale a scapito di quello turco.
Questo ribaltamento strategico rischia di produrre conseguenze non secondarie sulle relazioni bilaterali tra i due paesi. Un Iran Stato paria, con pochi alleati nella regione e nella comunità internazionale rappresentava una situazione funzionale alla geopolitica turca, rendendo agevole ad Ankara giocare il ruolo di ponte tra l’Iran ed un Occidente ostile a Teheran, o bloccato dai meccanismi sanzionatori costruiti dall’Occidente. La duplice rilevanza di tale ruolo di frontiera fu evidente nel 2010, quando la Turchia fece pesare il proprio ruolo di gatekeeper votando in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro nuove sanzioni contro l’Iran, dopo essersi offerto come paese mediatore per gli scambi controllati di uranio tra l’Iran e l’estero. Oggi la Turchia ha perso pressoché totalmente questo ruolo. Il fatto che gli USA negozino direttamente con l’Iran e – dopo l’accordo sul nucleare con il 5+1 – vi sia la possibilità di un reinserimento di Teheran nel sistema internazionale a determinate condizioni, ha di fatto eroso la rendita di posizione di Ankara nonché ridotto la sua utilità marginale per Teheran. Lo sdoganamento di Teheran comporta l’aumento di competizione tra Turchia ed Iran. Nel delicato rapporto esistente tra questi due paesi ciò vuol dire una perdita netta in termini di leverage strategico della Turchia sull’Iran che si manifesterà nel medio periodo in una riaccesa competizione tra i due paesi, specialmente in Iraq ed in Siria, due scenari in cui le posizioni di Ankara e Teheran sono agli antipodi. È alla luce di ciò si possono interpretare le parole di Erdogan sul rischio di un dominio regionale di Teheran: alzare la tensione tra i due paesi allo scopo di mantenere il vantaggio residuo di Ankara, legandolo non più al conflitto Usa – Iran ma sostituendolo con la crescente faglia saudita – iraniana. Una faglia che, per Ankara, più ampia è meglio è.
Equilibrismi neo-ottomani: bilanciare con Riad l’ascesa di Teheran?
L’ascesa dell’AKP e la nuova politica estera adottata da Ankara dopo l’avvio delle primavere arabe aveva contribuito ad avvicinare sempre più la Turchia con l’Arabia Saudita, in particolare nella prima fase del conflitto siriano, quando entrambi i paesi era scesi nel campo delle milizie anti Assad ed erano impegnate per spazzar via il regime secolare e nazionalista di Damasco per sostituirlo con un regime islamista. Tuttavia, nel 2013 la caduta del governo dei Fratelli Mussulmani in Egitto ed il deciso sostegno saudita dato al generale Al Sissi – che Ankara continua a non riconoscere come legittimo interlocutore – ha profondamente diviso i due paesi, sottolineando la volatilità e caducità delle intese che si realizzano tra le aspiranti potenze regionali nell’attuale fase di profonda instabilità, accentuata anche al disimpegno statunitense dall’area. L’avvio dello sdoganamento di Teheran impone, tuttavia, ad Ankara di ricucire quello strappo in un tempo relativamente breve.
Un ulteriore conferma della relazione particolare che la Turchia punta a ricostruire con il Regno dell’Arabia Saudita è indicata dall’incontro a sorpresa che il presidente Erdogan ha avuto ad Ankara con il principe ereditario saudita Mohammed bin Nayef – Ministro dell’interno e responsabile delle attività di antiterrorismo del Regno – esattamente il giorno prima della sua partenza per Teheran. Una conferma che la questione ISIS ed il futuro di questo proto-stato rappresenta, per il momento, il tema su cui si testeranno realmente le relazioni tra Iran, Turchia ed Arabia Saudita.
Al contrario, quello su cui continuerà a funzionare il rapporto tra Turchia e Iran, e che rappresenta il vero scopo della visita di Erdogan a Teheran, è rappresentato dalle relazioni commerciali, che sono ancora al di sotto del potenziale che potrebbero esprimere due grandi paesi contermini. In prospettiva della riapertura del mercato iraniano agli investimenti internazionali e al suo progressivo reinserimento negli scambi finanziari internazionali, l’interscambio commerciale tra i due paesi potrebbe crescere significativamente, anche in considerazione della contrazione registratasi negli ultimi due anni ed Ankara non vuole, nonostante ogni possibile dissidio strategico, restare indietro nella corsa ai mercati iraniani che si riaprono. Anche se, gli accordi firmati tra i due paesi potrebbero essere di maggiore utilità per l’Iran che ha disperato bisogno di mercati ove indirizzare il proprio export e trarne valuta pregiata per rilanciare la propria economia e promuovere gli investimenti necessari a lungo rimandati. Oggi il commercio bilaterale tra i due paesi è fermo a 14 miliardi di dollari mentre nel 2012 era a 21,8 miliardi. Più complessa invece la questione energetica tra i due paesi, con Ankara che importa da Teheran il 35% del suo petrolio ed il 20% del suo gas naturale, ed un contenzioso commerciale tuttora aperto sul prezzo del gas importato dall’Iran. La soluzione di tale contenzioso potrebbe portare ad un aumento delle quantità importate da Ankara.
Analisi e valutazioni
· L’accordo sul nucleare iraniano tra Teheran ed il 5+1 rappresenta un nuovo, ancorché atteso, game changer per Ankara, che sancisce la completa trasformazione del sistema geopolitico mediorientale post 2011, anno su cui la politica estera turca, ha costruito la sua postura attuale. La mancata caduta del regime di Assad, la caduta del governo dei fratelli mussulmani in Egitto, l’emersione dell’ISIS e lo sdoganamento di Teheran, impongono una difficile revisione della politica estera turca. Politica estera che appare, sempre più ostaggio della politica di sicurezza interna del paese e dell’ideologia politica di Erdogan;
· Il disimpegno controllato statunitense dalla regione ha lasciato un vuoto geopolitico che durerà per vari anni e potrà essere colmato solo da una complessa e asimmetrica interazione tra quattro, molto diverse, potenze regionali: Russia, Iran, Turchia e Arabia Saudita. Nessuna di esse è capace di imporre unilateralmente un proprio assetto regionale, mentre la competizione esistente su molteplici dossier impedisce un consenso tra di esse. La Turchia avrebbe delle ottime potenzialità di essere il baricentro di questo quadrilatero ma la politica estera fallimentare degli ultimi anni ne ha fatto il vaso più debole, anche perché è il paese che assomma il maggior numero di contradizioni nei rapporti bilaterali con gli altri paesi del quartetto;
· Il progressivo ritorno dell’Iran nella scena internazionale e regionale marginalizzerà ulteriormente la Turchia che difficilmente potrà arrestare tale percorso contando su una crescente contrapposizione strategica tra Iran e KSA. Questa contrapposizione verrà, nel medio – lungo periodo, sempre più ricondotta sul piano bilaterale tra i due paesi che sono destinati a diventare i principali power broker della regione;
· Per Ankara sarà sempre più difficile trovare uno spazio politico strategico che consenta di ottenere i ritorni desiderati dalla complessa e convulsa politica estera regionale. Un approccio retoricamente vigoroso ed ideologico ma di fatto orientato a piccoli successi su singol issue, con alleanze a geometrie variabili tra Teheran, Riad, Mosca sembra essere il destino di breve termine della politica estera e di sicurezza della Turchia, la cui imprevedibilità appare essere, paradossalmente, il maggior punto di forza.
REGIONE: Operazione di polizia antiterrorismo tra Italia e Balcani. Al termine di un’indagine svoltasi tra Italia e Balcani la Polizia di Stato ha proceduto all’arresto di una presunta cellula jihadista composta anche di cittadini italiani di origine albanese e marocchina. Secondo l’accusa, gli arrestati erano in contatto, attraverso una rete balcanica facente perno in Albania, con foreign fighter italiani combattenti in Siria nelle fila dell’ISIS. L’accusa ritiene che gli arrestati facciano parte di un network di reclutatori attivo tra Italia e Balcani, operante con lo scopo di radicalizzare ed inviare a combattere in Siria emigrati di religione mussulmana, specialmente provenienti da Kosovo, Albania, Macedonia e Bosnia Erzegovina. Le cellule di reclutatori erano attive in tre regioni italiane, Lombardia, Lazio e Toscana, sia utilizzando la rete ed i social network, sia svolgendo attività di proselitismo itinerante. Agli arresti eseguiti in Italia hanno fatto seguito quelli avvenuti in Albania ad opera delle autorità di Tirana, che hanno agito in esecuzione del mandato Interpol emesso dalle autorità italiane.
Un duplice preoccupante fenomeno sta avvenendo in tutta Europa. Secondo dati Europol, negli ultimi anni sono in aumento tanto il numero di europei che si recano in Siria ed Iraq a combattere all’interno di formazioni jihadiste incluse nelle black list di organizzazioni terroriste internazionali, quanto, parallelamente, sono in crescita gli attentati terroristici all’interno dell’Europa commessi per finalità religiose (raddoppiati tra il 2009 ed il 2013) e le attività di incitamento volte a spingere individui residenti in Europa a commettere attacchi auto organizzati (c.d. individual jihad). In questo contesto, il corridoio della Jihad Europa – Balcani – Siria/ISIS è importante non tanto perché i Balcani ricoprano un ruolo particolare come serbatoio di reclutamento, quanto, piuttosto, poiché essi sono il punto di incrocio logistico tra reti criminali autoctone, reti jihadiste mediorientali e islam radicale europeo, ripercorrendo un business model criminale già visto nel recente passato: droga verso l’Europa in cambio di armi per la Jihad. Tale divisione del lavoro è funzione non solo della specializzazione ma anche della necessità per le organizzazioni terroristiche di non invadere il terreno della criminalità organizzata balcanica, già in buona parte naturalizzata nel territorio europeo. È una forma di cooperazione opportunistica, che consente a gruppi jihadisti mediorientali di operare nel cuore dell’Europa attraverso network criminali balcanici che consentono e di ottenere finanziamenti, armi, documenti falsi, trasporti clandestini ed altri servizi illegali.
(Pubblicato su osservatorio CeMiSS Numero 2/2015, consultabile sul sito www.casd.difesa.it)
È indubbio che l’esplosione del fenomeno ISIS abbia rappresentato un elemento determinante nel favorire il ribaltamento dei ruoli tra Teheran ed Ankara, con la Turchia troppo coinvolta nella gestione del fenomeno ISIS e che non è riuscita ad affrancarsi dalla sua posizione originaria del regime change ad ogni costo, anche quanto il governo di Damasco ha dimostrato un’elevata capacità di resistenza, supporto internazionale e un non trascurabile consenso da una parte della popolazione siriana; in questo stesso contesto, l’Iran ha progressivamente saputo trasformarsi dalla sua posizione di partenza di sostenitore di un regime paria come era quello di Damasco a quella di attore determinante per il contenimento e ridimensionamento dell’ISIS. Da essere parte del problema Teheran ha progressivamente iniziato a ridiventare parte della soluzione, aumentando il suo potere regionale a scapito di quello turco.
Questo ribaltamento strategico rischia di produrre conseguenze non secondarie sulle relazioni bilaterali tra i due paesi. Un Iran Stato paria, con pochi alleati nella regione e nella comunità internazionale rappresentava una situazione funzionale alla geopolitica turca, rendendo agevole ad Ankara giocare il ruolo di ponte tra l’Iran ed un Occidente ostile a Teheran, o bloccato dai meccanismi sanzionatori costruiti dall’Occidente. La duplice rilevanza di tale ruolo di frontiera fu evidente nel 2010, quando la Turchia fece pesare il proprio ruolo di gatekeeper votando in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contro nuove sanzioni contro l’Iran, dopo essersi offerto come paese mediatore per gli scambi controllati di uranio tra l’Iran e l’estero. Oggi la Turchia ha perso pressoché totalmente questo ruolo. Il fatto che gli USA negozino direttamente con l’Iran e – dopo l’accordo sul nucleare con il 5+1 – vi sia la possibilità di un reinserimento di Teheran nel sistema internazionale a determinate condizioni, ha di fatto eroso la rendita di posizione di Ankara nonché ridotto la sua utilità marginale per Teheran. Lo sdoganamento di Teheran comporta l’aumento di competizione tra Turchia ed Iran. Nel delicato rapporto esistente tra questi due paesi ciò vuol dire una perdita netta in termini di leverage strategico della Turchia sull’Iran che si manifesterà nel medio periodo in una riaccesa competizione tra i due paesi, specialmente in Iraq ed in Siria, due scenari in cui le posizioni di Ankara e Teheran sono agli antipodi. È alla luce di ciò si possono interpretare le parole di Erdogan sul rischio di un dominio regionale di Teheran: alzare la tensione tra i due paesi allo scopo di mantenere il vantaggio residuo di Ankara, legandolo non più al conflitto Usa – Iran ma sostituendolo con la crescente faglia saudita – iraniana. Una faglia che, per Ankara, più ampia è meglio è.
Equilibrismi neo-ottomani: bilanciare con Riad l’ascesa di Teheran?
L’ascesa dell’AKP e la nuova politica estera adottata da Ankara dopo l’avvio delle primavere arabe aveva contribuito ad avvicinare sempre più la Turchia con l’Arabia Saudita, in particolare nella prima fase del conflitto siriano, quando entrambi i paesi era scesi nel campo delle milizie anti Assad ed erano impegnate per spazzar via il regime secolare e nazionalista di Damasco per sostituirlo con un regime islamista. Tuttavia, nel 2013 la caduta del governo dei Fratelli Mussulmani in Egitto ed il deciso sostegno saudita dato al generale Al Sissi – che Ankara continua a non riconoscere come legittimo interlocutore – ha profondamente diviso i due paesi, sottolineando la volatilità e caducità delle intese che si realizzano tra le aspiranti potenze regionali nell’attuale fase di profonda instabilità, accentuata anche al disimpegno statunitense dall’area. L’avvio dello sdoganamento di Teheran impone, tuttavia, ad Ankara di ricucire quello strappo in un tempo relativamente breve.
Un ulteriore conferma della relazione particolare che la Turchia punta a ricostruire con il Regno dell’Arabia Saudita è indicata dall’incontro a sorpresa che il presidente Erdogan ha avuto ad Ankara con il principe ereditario saudita Mohammed bin Nayef – Ministro dell’interno e responsabile delle attività di antiterrorismo del Regno – esattamente il giorno prima della sua partenza per Teheran. Una conferma che la questione ISIS ed il futuro di questo proto-stato rappresenta, per il momento, il tema su cui si testeranno realmente le relazioni tra Iran, Turchia ed Arabia Saudita.
Al contrario, quello su cui continuerà a funzionare il rapporto tra Turchia e Iran, e che rappresenta il vero scopo della visita di Erdogan a Teheran, è rappresentato dalle relazioni commerciali, che sono ancora al di sotto del potenziale che potrebbero esprimere due grandi paesi contermini. In prospettiva della riapertura del mercato iraniano agli investimenti internazionali e al suo progressivo reinserimento negli scambi finanziari internazionali, l’interscambio commerciale tra i due paesi potrebbe crescere significativamente, anche in considerazione della contrazione registratasi negli ultimi due anni ed Ankara non vuole, nonostante ogni possibile dissidio strategico, restare indietro nella corsa ai mercati iraniani che si riaprono. Anche se, gli accordi firmati tra i due paesi potrebbero essere di maggiore utilità per l’Iran che ha disperato bisogno di mercati ove indirizzare il proprio export e trarne valuta pregiata per rilanciare la propria economia e promuovere gli investimenti necessari a lungo rimandati. Oggi il commercio bilaterale tra i due paesi è fermo a 14 miliardi di dollari mentre nel 2012 era a 21,8 miliardi. Più complessa invece la questione energetica tra i due paesi, con Ankara che importa da Teheran il 35% del suo petrolio ed il 20% del suo gas naturale, ed un contenzioso commerciale tuttora aperto sul prezzo del gas importato dall’Iran. La soluzione di tale contenzioso potrebbe portare ad un aumento delle quantità importate da Ankara.
Analisi e valutazioni
· L’accordo sul nucleare iraniano tra Teheran ed il 5+1 rappresenta un nuovo, ancorché atteso, game changer per Ankara, che sancisce la completa trasformazione del sistema geopolitico mediorientale post 2011, anno su cui la politica estera turca, ha costruito la sua postura attuale. La mancata caduta del regime di Assad, la caduta del governo dei fratelli mussulmani in Egitto, l’emersione dell’ISIS e lo sdoganamento di Teheran, impongono una difficile revisione della politica estera turca. Politica estera che appare, sempre più ostaggio della politica di sicurezza interna del paese e dell’ideologia politica di Erdogan;
· Il disimpegno controllato statunitense dalla regione ha lasciato un vuoto geopolitico che durerà per vari anni e potrà essere colmato solo da una complessa e asimmetrica interazione tra quattro, molto diverse, potenze regionali: Russia, Iran, Turchia e Arabia Saudita. Nessuna di esse è capace di imporre unilateralmente un proprio assetto regionale, mentre la competizione esistente su molteplici dossier impedisce un consenso tra di esse. La Turchia avrebbe delle ottime potenzialità di essere il baricentro di questo quadrilatero ma la politica estera fallimentare degli ultimi anni ne ha fatto il vaso più debole, anche perché è il paese che assomma il maggior numero di contradizioni nei rapporti bilaterali con gli altri paesi del quartetto;
· Il progressivo ritorno dell’Iran nella scena internazionale e regionale marginalizzerà ulteriormente la Turchia che difficilmente potrà arrestare tale percorso contando su una crescente contrapposizione strategica tra Iran e KSA. Questa contrapposizione verrà, nel medio – lungo periodo, sempre più ricondotta sul piano bilaterale tra i due paesi che sono destinati a diventare i principali power broker della regione;
· Per Ankara sarà sempre più difficile trovare uno spazio politico strategico che consenta di ottenere i ritorni desiderati dalla complessa e convulsa politica estera regionale. Un approccio retoricamente vigoroso ed ideologico ma di fatto orientato a piccoli successi su singol issue, con alleanze a geometrie variabili tra Teheran, Riad, Mosca sembra essere il destino di breve termine della politica estera e di sicurezza della Turchia, la cui imprevedibilità appare essere, paradossalmente, il maggior punto di forza.
REGIONE: Operazione di polizia antiterrorismo tra Italia e Balcani. Al termine di un’indagine svoltasi tra Italia e Balcani la Polizia di Stato ha proceduto all’arresto di una presunta cellula jihadista composta anche di cittadini italiani di origine albanese e marocchina. Secondo l’accusa, gli arrestati erano in contatto, attraverso una rete balcanica facente perno in Albania, con foreign fighter italiani combattenti in Siria nelle fila dell’ISIS. L’accusa ritiene che gli arrestati facciano parte di un network di reclutatori attivo tra Italia e Balcani, operante con lo scopo di radicalizzare ed inviare a combattere in Siria emigrati di religione mussulmana, specialmente provenienti da Kosovo, Albania, Macedonia e Bosnia Erzegovina. Le cellule di reclutatori erano attive in tre regioni italiane, Lombardia, Lazio e Toscana, sia utilizzando la rete ed i social network, sia svolgendo attività di proselitismo itinerante. Agli arresti eseguiti in Italia hanno fatto seguito quelli avvenuti in Albania ad opera delle autorità di Tirana, che hanno agito in esecuzione del mandato Interpol emesso dalle autorità italiane.
Un duplice preoccupante fenomeno sta avvenendo in tutta Europa. Secondo dati Europol, negli ultimi anni sono in aumento tanto il numero di europei che si recano in Siria ed Iraq a combattere all’interno di formazioni jihadiste incluse nelle black list di organizzazioni terroriste internazionali, quanto, parallelamente, sono in crescita gli attentati terroristici all’interno dell’Europa commessi per finalità religiose (raddoppiati tra il 2009 ed il 2013) e le attività di incitamento volte a spingere individui residenti in Europa a commettere attacchi auto organizzati (c.d. individual jihad). In questo contesto, il corridoio della Jihad Europa – Balcani – Siria/ISIS è importante non tanto perché i Balcani ricoprano un ruolo particolare come serbatoio di reclutamento, quanto, piuttosto, poiché essi sono il punto di incrocio logistico tra reti criminali autoctone, reti jihadiste mediorientali e islam radicale europeo, ripercorrendo un business model criminale già visto nel recente passato: droga verso l’Europa in cambio di armi per la Jihad. Tale divisione del lavoro è funzione non solo della specializzazione ma anche della necessità per le organizzazioni terroristiche di non invadere il terreno della criminalità organizzata balcanica, già in buona parte naturalizzata nel territorio europeo. È una forma di cooperazione opportunistica, che consente a gruppi jihadisti mediorientali di operare nel cuore dell’Europa attraverso network criminali balcanici che consentono e di ottenere finanziamenti, armi, documenti falsi, trasporti clandestini ed altri servizi illegali.
(Pubblicato su osservatorio CeMiSS Numero 2/2015, consultabile sul sito www.casd.difesa.it)