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La Babele cosmopolita e
le ragioni di Stati e Nazioni

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(Caro professore,
ho letto con interesse la sua intervista dal titolo “Babele e la cittadinanza cosmopolita” comparsa sul primo numero del mensile “l'interprete nazionale”. Nell’articolo Lei affronta con la lucidità che le è propria uno dei problemi cruciali dell’odierna società internazionale, ossia il processo di destrutturazione del sistema tradizionale westfaliano basato su Stati sovrani e nazionalità indipendenti. Correttamente lei descrive le attuali difficoltà e le contraddizioni di questo processo di transizione verso un mondo basato sulla cittadinanza cosmopolita ed illustra le opportunità per l’Europa di costituire l’avanguardia di un modello sociale che definisce “la Babele opportunità”. Pur condividendo una parte della sua analisi, dissento però su un punto fondamentale: incoraggiare oggi ulteriormente quel processo a cui Lei accenna di disfacemento e dissoluzione dei concetti di Stato e di Nazione sarebbe per tutta l’Europa, e per la nostra stessa Italia, un grave errore strategico, soprattutto in questa fase storica in cui assistiamo all’emergere di nuove potenze globali (come Brasile, Cina, India) e al ritorno sulla scena di antiche potenze regionali (come Russia e Turchia). Paesi estremamente diversi tra loro ma che sono accomunati proprio dal fatto di aver scelto una via statuale e nazionale alla globalizzazione, catturando a beneficio dei propri sistemi paese i dividendi di potenza creati dalla interazione globale tra le società occidentali ed il resto del mondo. 

Oggi, vent’anni dopo l’avvio della fase più spinta della globalizzazione iniziata nei primi anni novanta, è necessario fare un bilancio di questo ventennio che ha rivoluzionato le relazioni internazionali ma che non ne ha alterato i principi fondamentali che restano pressoché invariati da almeno due secoli. Stati e nazioni sono oggi concetti non superati e rappresentano ancora, nel bene o nel male, i cardini della stabilità del sistema globale. Il grande processo di erosione e diffusione della sovranità e di affievolimento dei ruolo dei confini che va genericamente sotto il nome di globalizzazione, non è riuscito ad intaccare la grammatica reale del sistema internazionale. Alla spinta globalizzatrice del turbodecennio economico degli anni novanta ha risposto il decennio di riflusso appena conclusosi, che ha visto la fine del sogno della creazione di un mondo piatto e cosmopolita e il ritorno della storia di stampo westfaliano.

Segnali non equivocabili hanno attraversato tutto il decennio breve iniziato con l’11 settembre del 2001 e conclusosi con il crollo del sistema finanziario americano nel 2008. Stati e nazioni, che abbiamo considerato essere orpelli superati in un mondo che immaginavamo sarebbe stato costruito lungo il piano inclinato della globalizzazione, sono tornati a rivendicare un proprio ruolo, piccolo o grande, nel sistema internazionale. E ad utilizzare le maglie larghe della globalizzazione per recuperare sovranità ed identità. Ciò è vero sia per i piccoli paesi di nuova indipendenza sorti dal disgregamento della Jugoslavia e dall’Unione sovietica, sia per le potenze emergenti come la Cina, l’India, il Brasile, che per quelle di ritorno come la Russia. Nello stesso arco di tempo, fallivano gli esperimenti di esportazione della democrazia, in Somalia, ad Haiti, in Kosovo, in Iraq e in Afghanistan mentre, al tempo stesso, entrava in crisi in Occidente il progetto di costruzione di società multiculturali.

L’ordine internazionale post guerra fredda non si è ricostruito nel nome della scomparsa di Stati e nazioni, bensì proprio nel nome del loro ritorno sulla scena politica mondiale. Certo, Stati e nazioni sono oggi strumenti arcaici, ancora legati a concetti di sovranità, identità e di potere tipici della modernità, e come tali spesso in difficoltà a rappresentare  le esigenze di governabilità interne ed internazionali delle società europee postmoderne. Eppure essi conservano ancora la propria necessaria utilità nell’attuale sistema internazionale ibrido, in cui convivono, avvolti dalla stessa tela della globalizzazione, mondi premoderni, moderni e postmoderni.

Certo, nel corso della storia gli Stati si sono rivelati essere anche feroci strumenti di oppressione della libertà e degli individui e le nazioni hanno originato il drammatico fenomeno dei nazionalismi e dei genocidi. Ma la storia dell’umanità ci mostra che totalitarismi e guerre non sono affatto il prodotto esclusivo del potere statale e del concetto nazionale, ma spesso una drammatica conseguenza della lotta per il potere in quanto tale o la conseguenza di ideologie ispirate all’odio che si impossessano della scatola Stato e del vestito della nazione. Società premoderne e prestatali sono spesso tormentate da guerre e massacri in misura molto maggiore di quello che accade all’interno degli Stati e la violazione dei diritti umani può avvenire all’interno di nuclei sociali molto più piccoli, come le famiglie, o le etnie e le tribù. Se pensiamo alla drammatica fine della Jugoslavia, ci accorgiamo che è stata proprio la dissoluzione di uno Stato e la fine del nazionalismo jugoslavo a generare la peggiore guerra civile avvenuta sul suolo europeo dalla fine della seconda guerra mondiale. E possiamo veramente attribuire un massacro orribile come quello di Srebrenica ad uno Stato (che non c’era più) o all’interesse nazionale (serbo)? O piuttosto dovremo imputarlo ad un gruppo di individui criminali, militari o paramilitari, in preda ad un odio etnico premoderno (o postmoderno?) e alle vendette di una sanguinosa guerra civile tra bande combattuta sulle spoglie di uno Stato nazione fallito? E nella strage di Srebrenica, qualche colpa l’avranno forse anche le transnazionali Nazioni Unite e la fantomatica “comunità internazionale” per aver affidato ad un pugno di imbelli soldati olandesi la protezione della enclave mussulmana?

Tutto questo per dire che il male esiste ed esisterà sempre, tanto in società  costruite su basi statali e nazionali quanto in società costruite sul modello di un’ipotetica Babele transnazionale quanto in failed states che riportano le lancette della storia indietro a contesti bellici premoderni. Al contrario, dobbiamo considerare che i quattro secoli di vita degli Stati e i due secoli di vita delle nazioni, non hanno prodotto solo gulag e guerre nazionaliste. Stati e nazioni hanno rappresentato anche le più efficienti forme di organizzazione politica e sociale occidentali consentendo il raggiungimento di un’infinità di conquiste economiche e civili ai popoli europei. La stessa Europa come la conosciamo oggi, che sul mondo esercita un duplice primato di benessere e di valori, non esisterebbe se non avesse alle spalle le due potenti creazioni della statualità e della nazionalità. Ma soprattutto, è la stessa democrazia moderna, ad essere un prodotto politico e culturale delle nazioni europee organizzate in stati sovrani, che si sono affermati come alternativa al particolarismo etnico e all’universalismo imperiale. I popoli europei, se ancora aspirano a giocare un ruolo di rilievo nel sistema internazionale, dovrebbero prestare maggiore attenzione alle radici storiche della propria sovranità politica, senza mai dimenticare lo stretto legame esistente tra Stato, nazione e democrazia. Spogliarsi sbrigativamente dei primi due vestiti rischia di mettere in serio pericolo anche l’essenza di uno dei valori fondanti dell’Occidente: quello della democrazia, in Europa nata sovrana e nazionale. Anche nelle società postmoderne tentate dal sogno cosmopolita, Stati e nazioni conservano la loro ragione di essere.   

(articolo pubblicato su rivista L'interprete internaionale, 2008)

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